Pochi giorni fa Twitter è diventata l’arena di uno scontro tra WikiLeaks e il giornalista Glenn Greenwald su di un argomento sul quale non hanno mai condiviso la stessa posizione: la gestione dei materiali forniti dalle fonti e l’uso o meno di un intervento editoriale su questi.

L’occasione è stata un lungo e dettagliato resoconto pubblicato da «The Intercept», il magazine digitale gestito da Greenwald, e un articolo uscito su il «Washington Post», entrambi riguardanti il funzionamento di un programma della Nsa (National Security Agency) chiamato Mystic, in grado di recuperare e riascoltare telefonate già avvenute, programma in capace di funzionare in enormi aree geografiche.

Il «Washington Post» ha rivelato che Mystic opera in 5 Paesi ma, su richiesta dell’amministrazione Usa, ha omesso i nomi degli Stati sorvegliati. «The Intercept», invece, ne ha rivelati quattro su cinque aggiungendo una X a Bahamas, Messico, Filippine e Kenya.

La ragione per la quale l’identità del quinto Paese non è stata resa pubblica da «The Intercept» è stata motivata dallo stesso Greenwald con la preoccupazione fondata e circostanziata per cui rivelarne il nome potrebbe portare ad un incremento della violenza in quella zona, mettendo a repentaglio vite umane.

WikiLeaks ha trovato la spiegazione inaccettabile e ne è nata una discussione tra le due fazioni: quella del sito fondato da Julian Assange, che predica una trasparenza totale dei materiali pubblicati integralmente, e quella rappresentata da Greenwald che, invece, sostiene la necessità di un intervento editoriale, intervento che secondo Assange può diventare censura. «I cittadini di un intero Paese hanno diritto di scegliere il proprio destino. Se volessero fare una rivolta basandosi sulla consapevolezza di essere intercettati dagli Stati Uniti, avrebbero il diritto di farla», ha affermato WikiLeaks su Twitter.

La posizione di WikiLeaks è condivisa da l’hacker attivista e giornalista Jacob Appelbaum (aka @ioerror) secondo il quale l’atteggiamento di Greenwald è pericoloso in quanto finisce per isolare e porre Wikileaks in una posizione ancora più scomoda, facendola apparire come estremista; da questo è nato un altro botta e risposta diretto, tra lui e John Cook, anche lui giornalista e collega di Greenwald. La parola fine al momento l’ha avuta Wikileaks che, come annunciato durante lo scontro su Twitter, ha reso pubblico il nome del quinto Paese: l’Afghanistan. Questa differenza sulla gestione dei materiali e la modalità utilizzata per renderli pubblici, non è la prima volta che si evidenzia.

Già mesi fa, sempre su Twitter, c’era stato un simile confronto tra Wikileaks e Greenwald, quando il quotidiano olandese «Nrc Handelsblad», con supervisione di Greenwald, aveva pubblicato documenti forniti da Snowdem contenenti una slide che rivelava come la Nsa avesse violato 50mila reti informatiche nel mondo e in quali Paesi. Il documento presentava un pesante intervento editoriale, e alcune località nel mondo erano state oscurate. La scelta aveva indignato WikiLeaks che aveva chiesto spiegazioni a riguardo. In quell’occasione Greenwald aveva rivelato l’esistenza di un preciso accordo fatto con Snowden su cosa pubblicare e cosa no; un accordo specifico dove lo stesso Snowden aveva indicato quali categorie di informazioni rivelare o meno, al fine di tutelare la propria incolumità legale, o quanto meno, limitare i pericoli. Ciò che Greenwald aveva sostenuto e sostiene, è di essere fedele al principio per il quale non violerà mai gli accordi con la sua fonte, e non la esporrà mai a rischi non voluti. Anche se questo comporta interventi sui materiali forniti dalla fonte.

In quell’occasione Greenwald aveva ricordato a WikiLeaks di come anche loro avessero agito in modo simile per proteggere i «whistleblower» (gli informatori) del Cablegate su Iraq e Afghanistan e delle mail di Stratfor, Chelsea Manning e Jeremy Hammond. Nel caso di Hammond era stato reso pubblico che molti dei documenti sarebbero stati disponibili solo dopo la sentenza, proprio per non compromettere la posizione del ventottenne, che già così è stato poi condannato a dieci anni di reclusione.

Entrambi questi scontri, evidenziano quanto velocemente sia cambiato il giornalismo, o almeno una parte del giornalismo, durante gli ultimi anni. La nascita di WikiLeaks ha fatto parlare di nascita di una nuova modalità di informazione, che fa della trasparenza totale la propria bandiera: pubblicare i materiali nudi e crudi, senza omissioni anche quando, rivelando nomi e località, si potrebbero causare danni a terzi. Questo, agli esordi di WikiLeaks contrapponeva gli «old media» ormai paralizzati da una parte e il «leaking» digitale dall’altra, senza nessun punto di incontro per modalità e per fruizione.

Le rivelazioni di Snowden affidate a Greenwald e Laura Poitras hanno presentato un nuovo passaggio.

Greenwald è un giornalista, «old» o «new» è irrilevante, e come tale si confronta con la gestione delle informazioni al fine anche della loro recepibilità e del massimo impatto che possono ottenere: editare o meno i materiali e come; diluire e quanto il flusso di informazioni in modo che il pubblico possa assimilarle e metabolizzarle. Il tutto senza causare danni collaterali, possibilmente. Durante la presentazione a New York del suo libro No place to hide (tradotto in Italia da Rizzoli), Greenwald ha raccontato della consapevolezza, sua e di Laura Poitras, che stavano affrontando una «rivoluzione» riguardante la modalità di divulgazione delle informazioni, una rivoluzione anche per il giornalismo stesso. Sono discussioni che evidenziano come si sia di fronte agli albori di un nuovo modo di fare giornalismo dove il codice etico viene scritto contemporaneamente alle rivelazioni che veicola.

Gli avvenimenti legati alle rivelazioni delle fonti di WikiLeaks, come di Greenwald, hanno portato la realtà a coincidere con le trame dei romanzi di fantascienza distopica: una realtà che vede il potere di determinare il corso degli avvenimenti anche nelle mani di Assange, Poitras, Cook, Greenwald.