Avrebbe dovuto essere una sorta di manifesto di propaganda, un’opera agit-prop data in pasto al pubblico per rafforzare la necessità rivoluzionaria e per diffondere l’ideologia comunista Soy Cuba, il film diretto nel 1964 dal russo Michail Kalatozov, in piena guerra fredda, come produzione cubano-sovietica. Invece, fu giudicato blando dal punto di vista politico, sostanzialmente un’opera fallita e presto archiviato e dimenticato. Ci vorranno trent’anni e due cineasti della New Hollywood come Martin Scorsese e Francis Ford Coppola per farlo rinascere a nuova vita, sedotti dai lunghi piani sequenza girati anche dal basso e dalle immagini di una Cuba che è più sperimentale che politica, nonostante le tesi di fondo e le storie che racconta, ambientate negli ultimi giorni della dittatura di Batista: una donna costretta alla prostituzione, uno studente che vede i suoi amici uccisi dalla polizia, un raccoglitore di canna da zucchero che incendia i campi pur di non vederli venduti alla United Fruits, l’arruolamento di alcuni contadini che si uniscono ai castristi.

8. Carlos Garaicoa - Saving time, 2009-2017
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È proprio questo film-capolavoro ad aprire il percorso della mostra che porta il suo stesso titolo con qualche punto interrogativo in più, ¿Soy Cuba?, a testimoniare una ricerca di identità ancora in corso per gli abitanti dell’isola caraibica e, naturalmente, per le arti visive che lì fermentano. La cornice per questo viaggio speciale è la bellissima Palazzina dei Bagni Misteriosi di Milano, dove la curatrice della rassegna, Laura Salas Redondo, ha chiamato a raccolta otto artisti delle ultime generazioni (più un omaggio a due outsider come Garaicoa e Tayou), impegnati in un work in progress che riguarda sia la loro soggettività sia i cambiamenti del loro paese. Visitabile fino al 19 novembre, nata da una idea di Marina Nissim, in collaborazione con Galleria Continua e Associazione Pier Lombardo, la mostra offre anche una narrazione parallela a quella delle opere esposte, una trama che riguarda più da vicino le biografie degli «ospiti» e i mutamenti di una società in rapida evoluzione e a rischio di sfilacciamento.

5. Pascale Marthine Tayou, Cuba mi Amor, 2015-2017
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Sono artisti che hanno studiato all’Avana, poi sono partiti, hanno fatto residenze all’estero e infine sono tornati, per vivere a Cuba con le loro famiglie e a lavorare dove sono nati. C’è chi riparte dalle proprie radici, scandagliando il proprio albero genealogico in una serie di light box a dimensione naturale, come Susan Pilar che costella la stanza di fantasmi e apparizioni. Lei, che ha una personale anche a Venezia, presso Ici Venice – Magazzino del Caffè – ha ripercorso il viaggio del suo antenato, immigrato cinese a Cuba nel XIX secolo. «Le voci dei membri della mia famiglia sussurrano e fanno da sottofondo all’installazione – spiega -. Narrano brani di vita del mio trisavolo Arcadio Shang, emigrato a Matanzas, mentre su fasce in tessuto di seta sono impresse alcune poesie scritte a mano con inchiostro cinese da me stessa, un omaggio ai migranti di ieri e a quelli di oggi».

Lasciandosi alle spalle il passato e le sue ramificazioni interne c’è chi, invece, preferisce raccontare la nuova Cuba su Instagram, come Leandro Feal che ha scelto un luogo simbolico – il locale Hotel Roma dell’Avana – trasformatosi in tempi recenti in centro della vita notturna giovanile. Oppure chi, come Luis Enrique Lòpez Chávez sfida l’autunno con una bella nuotata in piscina, lì proprio davanti alla Palazzina, mentre le mute dei concorrenti riportano la scritta battagliera e movimentista «l’arte è una proposta estetica che cambia il suo significato con il denaro». Suoi sono anche i Veleni, pozioni estratte da piante cubane per incantesimi o malefici (dipende) da destinarsi ad artisti cui si è debitori, in una catena di eredità dal gusto tossico. Si va dai suggerimenti «drogati» per Kippenberger a quelli per Tuymans fino a Orozco. La Comocadia dentata, invece, è tutta per Wim Delvoye. Poi ci sono i bunker dipinti in grandi tele a olio di Alejandro Campins: luoghi metafisici e forse un po’ fantascientifici che raccontano di guerre e paure che incombono sul nostro presente, silenziosi revenants dai colori spenti, privi dell’ossigeno della vita.

L’ironia è sempre una utile lente per filtrare la realtà e a utilizzarla con un tocco dadaista è Reynier Leyva Novo: file di bicchieri di una trasparenza cristallina, presentano i presidenti americani e quelli cubani, in un incontro utopico che culmina nel contatto tra Raul Castro e Barack Obama.