«Questa è la prima volta che suoniamo in Toscana» gorgheggia in falsetto, saltellando nella sua tutina nera brillantata, mefistofelico Amleto, un Mick Jagger tarantolato, in perfetto italiano oxfordiano, dal palco del Summer Festival. Sarebbe stata la seconda, questa lucchese, se nell’82, beghe e gelosie da condominio (socialisti vs comunisti, Controradio vs Radio Centofiori), non avessero convinto Palazzo Vecchio a rinunciare, «per motivi di ordine pubblico» (sic!), all’evento. Fra i vari primati che Firenze vanta, questo è davvero superbo: è l’unica città al mondo che ha saputo dire «no» ai Rolling Stones. Che poi sarebbero finiti a Torino, con Mick a vaticinare, sventolando la maglietta di Paolo Rossi, il tre a uno degli Azzurri nella finale mondiale del Bernabeu. Trionfo torinese e rimpianti fiorentini. La città della Mole non ebbe paura. Otto anni dopo eccole di nuovo, le «pietre rotolanti», al Delle Alpi. Cavalcando l’album Their Satanic Majestic Request (1967), sarà il loro controverso tour psichedelico, l’ultimo con Bill Wyman, il bassista, l’inventore delle «groupie», le ondine che tiravano i reggiseni sul palco, lui che, classe 1936, decise che era tempo di smettere. Troppo vecchio. Vecchio? E loro? Troppa mitologia, troppa letteratura. Troppa aneddotica. E troppo vissuto. Poi ci metti i ricordi personali di chi quegli anni li ha quasi, e al corto circuito non c’è fine. Non c’è mai un vuoto con gli Stones. Riempire il già pieno è difficile. Rischiosamente dejà vu. Tutto è di troppo quando si ha a che fare con loro.

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E forse troppi, erano i 60mila, o giù di lì, che hanno invaso Lucca. Inevitabile qualche scompenso, qualche mugugno, qualche imprevisto. La macchina organizzativa alla fine regge e la città si consola coi 40 milioni e passa di euro che l’indotto del concerto ha prodotto. Certo, a fine gara, lo sgombero è un imbuto, le mura non sono di gomma, il mucchio selvaggio, chissà, una volta forse avrebbe sfondato. Ma il tempo delle intemperanze è preistoria. L’anarchia lascia il posto alla classicità. Gli Stones sono ormai garanzia di buon ordine delle cose. Nello smilzo Mick che saltella come un grillo, tira fuori la lingua, zompetta e traghetta il corpo di giunco da un’estremità all’altra del palco. Nel volto di Keith Richards, sonda, perforazione continua, ebbrezza devastante, il crollo di una diga, lo sguardo dello jedi che vede più lontano di tutti, le corde della chitarre eco di ultrasuoni siderali.

Nella impassibile alterità di Charlie Watts, il piacere della dissonanza, piccole smorfie di arrendevolezza e compiaciuta compostezza. Nel passeggiare aggressivo di Ronnie Wood, macchie di leopardo che schizzano improvvise, rompono gli equilibri, aggrediscono gli spazi. La storia, la vita degli Stones, è ora più che mai oltre la loro musica. È kunderianamente altrove. Oltre l’ascolto, qui a Lucca anticipato dal grugnire dei fan, di Sympathy for the Devil, subito seguito da It’s only Rock’n’roll (But I like it). E va ben oltre le stesse Satisfaction, Paint It Black e Let’s Spend the Night Together. Oltre Le mie lacrime, versione italiana di As tears goes by, che Mick canta nel nostro idioma perché dice «mi sento un po’ romantico».

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Ecco, ora è tempo di chiacchierare col principe Carlo e per assaggiare un gelato con Theresa May sul Ponte Vecchio. Nel 1969 a Oakland, la città delle Black Panthers, all’ingresso del concerto, gli Stones distribuivano un volantino. C’era scritto: «Suoneremo la vostra musica mentre distruggeremo i penitenziari e liberemo i prigionieri, distruggeremo le università e libereremo gli studenti, mentre distruggeremo le basi militari e armeremo i poveri». Alla fine gli unici fuochi, dopo Miss you, Start me up, Brown Sugar e Jumpin’ Jack Flash sono quelli pirotecnici che salutano Lucca. Sarà questo l’ultima volta degli Stones in Italia? Lo si diceva a Milano San Siro, lo si dava per scontato a Roma Circo Massimo. Quando c’è di mezzo il Diavolo, il Blues, mai dire mai.