Un matematico in pensione, ottantunenne, frequenta il seminario sull’Odissea tenuto dal figlio. Tutti i venerdì, per sedici settimane, si sposta in macchina da Long Island al Bard College per sedersi in mezzo alle matricole e partecipare animatamente alla discussione sul poema, esternando senza esitazioni il proprio punto di vista idiosincratico e non conforme. È questa la base nuda e fattuale nell’ultima storia di Daniel Mendelsohn, un osso narrativo, senza aggiunte finzionali, intorno al quale l’autore orchestra una sintesi perfetta tra presente e passato, storia personale e mito, vita e letteratura. Un’odissea Un padre, un figlio e un’epopea è il titolo del libro, da poco in Italia nella traduzione efficace di Norman Gobetti (Einaudi, pp. 307, euro 20,00). Su questo tassello esistenziale, circoscritto nel perimetro e nella durata, l’autore incardina la storia delle storie, la trama archetipica da cui origina l’intera letteratura occidentale. Richiamata nel presente, l’antica vicenda dialoga con il vissuto individuale, rilanciando con forza il proprio valore paradigmatico. E, per converso, la traccia del passato personale, la scheggia di storia minuta, il piccolo accadimento familiare acquistano, a contatto con la luce del racconto omerico, ampiezza epica e un respiro quieto.

Da una idea di mondo senza fughe
Nativo del Bronx, Jay Mendelsohn è un uomo burbero, senza svolazzi e sfumature, i piedi saldi a terra e una sicura presa sulla realtà. Lo sguardo abituato alla durezza e all’inesorabilità delle cose, al loro essere ciò che sono senza sensi ulteriori, il vecchio ama la difficoltà, la fatica, l’impegno senza sconti. Un’idea di mondo dritta e rigorosa, che non ammette vie di fuga e ragiona per conseguenza, con la linearità senza residuo propria dei numeri. Le vicende, così come le parole di Odisseo, nei loro molti giri, non possono che trovarlo freddo e diffidente. Le tortuosità, le svolte, il discorso doppio, il continuo aiuto divino, le lacrime, le lascivie dell’eroe omerico – ai suoi occhi un fulgido esempio di «chiagne e fotte» – vengono guardati con sospetto e riprovazione dall’attempato uditore. È contro questo fondo stabile dell’identità occidentale che Daniel Mendelsohn proietta la figura del padre, la sua ruvida saggezza di vita che tronca i fiori retorici e, rispetto alle letture consolidate, vede le cose dall’altra parte.

Insieme autore e personaggio, Daniel Mendelsohn è sulla pagina lo stesso che nella vita: studioso di lettere classiche e professore di letteratura in un college americano. La presenza del padre al suo seminario è, letteralmente, un pre-testo: l’Odissea infatti – è detto fin dall’inizio del libro – non è solo storia di mariti e mogli, è anche, forse più ancora, storia di padri e figli. Le scorciatoie anticanoniche che Jay Mendelsohn traccia sui versi omerici servono all’autore per illuminare il proprio rapporto con il padre, per stagliare meglio – nella rievocazione di silenzi, asperità, ruvidi affetti, discordanze anche conflittuali – la propria diversa fisionomia, le scelte autonome, le predilezioni sessuali, la genitorialità programmata. Di lezione in lezione, all’analisi degli episodi dell’Odissea e del loro contenuto acutamente umano e sempre attuale, agli elementi di tecnica epica e di poesia orale, al dibattito sulla questione omerica e alle appassionate sottigliezze filologiche si inframmezzano, posti a paragone, a contrasto o semplicemente affiancati, brani di vita del padre, che inquadrano, di volta in volta, il suo lavoro in un’azienda aerospaziale, la decennale carriera di insegnante, i ricordi di scuola e di guerra, il rimpianto per l’interruzione degli studi classici, i risentimenti e i silenzi, lo scabro rapporto con i genitori, l’ebraicità tenue.

Fuori dall’aula, il confronto tra padre e figlio sulla trama omerica si prolunga poi in una crociera circummediterranea che ripercorre le tappe dell’epopea. «Sulle tracce dell’Odissea» è il nome del viaggio a tema – esempio conclamato di un turismo culturale pago di sé e dei propri aneddoti – che i due intraprendono quasi per gioco, disincantati e scanzonati, ma che si rivelerà occasione di conoscenza, luogo adatto a gettare luce nuova su elementi del passato che si davano per assodati in un gioco di riflessi e rovesciamenti dove sfumano i contorni dell’identità individuale.

È questo il problema che il memoir di Daniel Mendelsohn rappresenta meglio: l’interrogarsi serio e costante sull’identità. «Cosa significa essere se stessi, e quanti se stessi diversi può avere una persona? Che differenza c’è tra ciò che siamo e ciò che gli altri sanno di noi?»: sono racchiusi in queste parole i quesiti più urgenti che l’Odissea continua a proporre. In accordo con queste domande, l’esistenza individuale non è confinata al presente, ma proiettata all’indietro ad accogliere le molte storie che a essa si sovrappongono e delle quali non è che replica e variazione. È naturale che, proprio in questo senso, nelle pagine di Un’odissea padre e figlio incarnino Ulisse e Telemaco. Jay è un Ulisse in controcanto e in misura minore, ma pur sempre carico di esperienza e di matura consapevolezza, mentre Daniel-Telemaco cerca il confronto con il padre per dare assetto e solidità alla propria indipendenza. Ma non si ferma qui il rispecchiamento, e la prospettiva è ben presto capovolta: Jay è troppo vecchio e fragile per non trascorrere iconologicamente verso la figura di Laerte, cedendo i tratti di Ulisse a Daniel. La riflessione sul presente e sui passati da cui proveniamo, sull’inevitabile confronto con la linea genealogica è condotta in Un’odissea con raffinata consapevolezza testuale.

Risonanze del canone occidentale
Il nuovo racconto agisce così da palinsesto su cui risuonano diversi testi del canone occidentale. Anzitutto, l’Ulisse di Joyce, la prima voce tra le Odissee contemporanee dove, come qui, il filo ebraico e il filo classico si annodano nelle convulse divagazioni della modernità e dove, come qui, un padre e un figlio, stavolta non per sangue ma per spirito, si inseguono e si riconoscono entro una cartografia identitaria dai confini sempre più sottili.

È sapiente la tessitura di criptocitazioni che attraversa le pagine di Mendelsohn, le spirali associative che riportano da queste al testo omerico, e poi indietro. Come non vedere, per fare solo un esempio, nel lettino dell’infanzia ricavato da una porta cava – segreto condiviso tra Jay e Daniel – un cenno allusivo al segreto del talamo che Ulisse costruisce sul ceppo di un ulivo secolare e che prepara l’agnizione finale e il riconoscimento da parte di Penelope?

Con stile piano e levità di registro, Mendelsohn riprende la materia classica e ne fa testo d’appoggio al presente, antica e sempre valida legittimazione per le multiformi letture e interpretazioni della realtà, avallo alla molteplicità degli sguardi sul mondo, nella consapevolezza che «là dove alcuni vedono caos e incoerenza, altri trovano senso, completezza e simmetria».