«Non esiste un cinema sardo: ognuno di noi fa il suo cinema, semmai ci accomuna l’ambientazione dei nostri film sull’isola». Il regista cagliaritano Gianfranco Cabiddu si oppone a una visione restrittiva, da riserva indiana, del cinema che nasce in Sardegna o che viene fatto sull’isola – la location privilegiata della sua cinematografia a partire dall’opera prima di trent’anni fa – Desamistade – passando dal Figlio di Bakunin fino all’adattamento shakespeariano che l’anno scorso gli è valso il David di Donatello alla miglior sceneggiatura non originale: La stoffa dei sogni, ambientato sull’isola dell’Asinara, meraviglia paesaggistica a lungo tagliata fuori dal mondo dalla presenza del carcere di massima sicurezza.

Un’altra grande passione è la musica – «Da ragazzo ho studiato musica e il mio sogno era fare il musicista» – che torna sempre nella sua carriera: il documentario Passaggi di tempo sul progetto Sonos e memoria di molti musicisti sardi, tra cui il trombettista Paolo Fresu (insieme a lui Cabiddu lavora anche al Festival jazz di Berchidda), quello su Fabrizio de Andrè, Faber in Sardegna, ma anche la direzione del Festival Creuza de Ma a Carloforte, sulla musica per il cinema… E il recente «debutto» nella lirica con la regia di Sancta Susanna di Hindemith e Cavalleria Rusticana di Mascagni, dove «la mia esperienza cinematografica e teatrale si è incontrata con le partiture musicali».

Nella «Stoffa dei sogni» uno degli elementi fondamentali è l’attenzione al paesaggio: l’isola dell’Asinara emerge quasi come un personaggio a sé. E anche sul suo doc «Faber in Sardegna» aveva raccontato che il punto di partenza era stato chiedersi: che cosa vedeva De André intorno a sé?
Fin dal mio primo film, Disamistade, per me il paesaggio è fondamentale, al pari di un personaggio – o di uno spazio teatrale come lo intendeva Peter Brook: dove ha luogo l’azione, dove i personaggi reagiscono agli eventi, ne sono influenzati. Per questo è sempre stato imprescindibile trovare le location giuste, che già di per sé raccontano moltissimo della storia che voglio portare sullo schermo, le donano un respiro che non è solo umano e di parole ma anche di immagine, essenziale per noi che facciamo cinema. Il paesaggio sardo poi è talmente vasto e vario che può ospitare tantissimi tipi di storie. Il discorso sul cinema nell’isola equivale in qualche modo a quello sul paesaggio, che in Sardegna ti consente di guardare il mondo e di avere su di esso un punto di vista privilegiato e originale. Ho sempre pensato alla Sardegna come a un’enorme possibilità: il mare che la circonda consente di aprire rotte verso tutte le direzioni, non ce ne è una privilegiata o obbligata. Si può andare a nord e incontrare la Francia, a nord-ovest e imbattersi nella Spagna, o si possono passare le colonne d’Ercole e finire negli Stati uniti. Il vantaggio di un’isola è che consente di attraversare il mare e di farsene attraversare. La nostra è una storia di influenze ricevute da tutti coloro che hanno abitato l’isola nel corso dei secoli: fenici, romani, cartaginesi, spagnoli, francesi … E specialmente in un territorio come quello del cinema le influenze che arrivano da fuori sono determinanti.

Quali sono i desideri, gli auspici, per il cinema dei sardi e che si fa in Sardegna?
Quando ero ragazzino mio padre mi portava a bere vino dai suoi amici in paese, a Sedilo, (provincia di Oristano, ndr), dove tutti erano produttori di vino perché avevano una vigna. E ognuno era convinto che il suo vino fosse buonissimo, il migliore, perché l’aveva fatto con le sue mani, pestato coi suoi piedi, nella sua vigna senza veleni. Ma non era davvero un vino eccellente. Poi poco a poco «quelli che venivano dal mare» hanno dato il loro contributo, hanno condiviso le loro tecniche…. E ora in Sardegna si fanno vini buonissimi universalmente e non solo per chi li ha fatti, anche se conservano le caratteristiche date dal nostro sole e la nostra terra. La ricchezza è sempre nella diversità: è ciò che mi auspico che succeda sempre di più per il cinema fatto in Sardegna e dai sardi. Quello che so dello spettacolo l’ho imparato da ragazzo lavorando con Eduardo De Filippo ma anche con Gassman o Comencini, per il quale ho fatto il fonico. Ho sempre imparato da tutti: non c’è una scuola o una prerogativa autoriale dogmatica. E la «sardità» non è un valore artistico di per sé. Un posto si sceglie, si conquista, come nel caso di Fabrizio De André che è venuto a vivere nell’isola e probabilmente, alla fine, era pure più sardo di tanti sardi, ma non ha mai sbandierato l’appartenenza come un valore estetico: è qualcosa che riguarda la vita più intima di una persona.

Cosa pensa della legge sul cinema sarda?
Quando è nata è stata una grande novità , molto positiva, perché ha consentito a tante persone di avvicinarsi al cinema. Dopo tanti anni però servirebbe ripensarla, perché sono molto cambiate le condizioni generali – a partire dalla legge cinema nazionale, così come è stato completamente rivoluzionato il modo di fare film rispetto ai tempi in cui si girava in pellicola, o il modo di fruirne. Quindi c’è da riflettere, soprattutto su una dicotomia: vogliamo una legge cinema che consenta ai talenti sardi di parlare la lingua del mondo, di essere competitivi, attrarre produttori, finanziamenti… O una legge che consenta la nascita di un’industria autoctona? Questa cosa per ora non è successa: non sono nati grandi produttori, se non autori che producono se stessi. E questo è ciò su cui in maniera un po’ sibillina spinge anche la nuova legge cinema nazionale. Ma a mio avviso non è un bene perché il nostro settore oltre che artistico è anche fortemente «industriale». La legge nazionale ha introdotto una definizione che fa un po’ paura: la categoria dei «film difficili», cioè quelli che fanno più fatica a trovare un mercato, a essere venduti. E poi c’è il calderone del cinema industriale dove gli aiuti sono automatici a seconda della forza dispiegata.

Lei è anche il direttore del Festival di Carloforte Creuza de Ma, che fa parte del «circuito» delle Isole del cinema.
Il primo a nascere è stato il Festival di Tavolara, poi il Solinas – inizialmente pensato più che altro come un incontro di formazione sulla scrittura cinematografica. All’epoca il nostro progetto era di dividerci i settori fondanti del cinema – scrittura, musica, recitazione e regia – proprio per cercare di offrire in tutta la Sardegna un’idea armonica di Festival. Nel caso di Creuza de Mà si tratta di studiare il ruolo della musica nel cinema. Nel corso dei 12 anni dalla sua nascita abbiamo ospitato tantissimi musicisti, tutti diversi tra di loro e tutti accomunati da un rapporto con il cinema: Michael Nyman, Paolo Fresu, Rita Marcotulli, Nicola Piovani, Franco Piersanti… Poi ci sono anche i seminari con i tecnici del suono, i mixatori, con cui si lavora sulla pasta del suono da un punto di vista tecnico. L’idea è quella di mettere a confronto musicisti e registi e lavorare sul rapporto «misterioso» fra la musica e il film: come nasce una colonna sonora, quali elementi vengono affidati alla musica – o anche solo al rumore, fondamentale per costruire un’atmosfera sonora. Nella convinzione che non si può insegnare a fare musica per il cinema tout court, ma si può trasmettere un mestiere.