Nella tarda serata di giovedì Onu, Russia e Stati uniti hanno annunciato un risultato apparentemente storico per il popolo siriano: la cessazione delle ostilità tra una settimana. Ma le parole, diceva una nota pellicola italiana, sono importanti. Tanto più se pronunciate durante la conferenza stampa congiunta di due superpotenze al cospetto delle Nazioni Unite. Si noti: cessazione delle ostilità e non cessate il fuoco.

La differenza non è esercizio retorico, ma concretezza, bombe, conflitto. In Siria la guerra non cesserà. Cosa dovrebbe cessare – nelle apparenti intenzioni internazionali – è lo scontro tra il governo di Damasco e i gruppi membri dell’Alto Comitato per i Negoziati, l’Hnc, ombrello delle opposizioni nato a dicembre a Riyadh. Ovviamente non cesserà la lotta contro i nemici comuni, lo Stato Islamico, il Fronte al-Nusra e la galassia di gruppi qaedisti che vi ruota intorno.

La Russia ha già avvertito: i raid contro i jihadisti – ha sottolineato il ministro degli Esteri Lavrov – proseguiranno. Possibilmente, ha aggiunto, attraverso il coordinamento militare con la coalizione guidata dagli Stati uniti. Ma per ora i jet di Putin agiranno in solitaria come fatto finora.

E qui sta l’inghippo: da settembre, quando l’esercito russo è entrato di prepotenza nel campo di battaglia siriano, l’Occidente e le opposizioni anti-Assad lo accusano di sfruttare la lotta all’Isis per bombardare i miliziani anti-governativi. Le operazioni militari anti-Isis continueranno, appendendo la tregua ad un filo fragilissimo: basterà poco per romperla, un pretesto, un raid di Mosca che secondo le opposizioni non ha avuto come target l’Isis per far saltare il tavolo. Per l’ennesima volta.

Tra sette giorni, quindi, le ostilità dovrebbero interrompersi ma non è affatto detto che accada: a Monaco, dove si è riunito il Syria Support Group, di rappresentanti siriani non ce n’era traccia. C’erano i loro “portavoce”, Mosca per Damasco e Washington per le opposizioni. Un fronte – quello anti-Assad – molto folto e diversificato, che vai dai salafiti di Ahrar al-Sham e Jaysh al-Islam ai moderati dell’Esercito Libero.

Perché la tregua regga è necessario che tutti questi movimenti, dai più grandi ai più piccoli, da quelli legati a doppio filo al Golfo fino ai più “indipendenti”, rispettino il volere della comunità internazionale. Un’impresa non da poco.

A preoccupare sono in primo luogo le considerazioni dell’Hnc: le opposizioni non si fidano del nemico. «Se ne vedremo l’implementazione – aveva detto il portavoce Salim al-Muslat – ci vedremo presto a Ginevra». Ma l’Hnc ha presto raffreddato gli entusiasmi: «Il progetto di una tregua temporanea sarà esaminato con le fazioni ribelli sul terreno – il commento di George Sabra, tra i leader dell’Hnc – I ribelli in Siria sono quelli che devono decidere».

E qua nascono i dubbi, palesati dai miliziani sul campo: l’accordo servirà alla Russia a coprire i raid contro noi opposizioni, dice un membro di Ahrar al-Sham al The Guardian. Dall’altra parte non c’è garanzia sul rispetto della tregua da parte dei ribelli nelle zone più calde, a cominciare da Aleppo, dove le opposizioni temono di essere spazzate via senza una reazione militare al governo.

In secondo luogo preoccupano le parole del governo. Il presidente Assad non abbassa la guardia: giovedì, in un’intervista all’Afp, ha ribadito l’intenzione di riprendere il controllo dell’intera Siria e di continuare a combattere il terrorismo, categoria in cui inserisce buona parte delle opposizioni.

Accanto alla cessazione delle ostilità è prevista l’apertura di corridoi umanitari per le comunità sotto assedio, sia da parte governativa che delle opposizioni. Nei prossimi giorni gli aiuti saranno consegnati nelle zone individuate dal Palazzo di Vetro: 18 città in cui risiedono 480mila civili. Un bilancio lontano da quello pubblicato pochi giorni fa da Siege Watch, progetto di The Syria Institute e Pax, secondo il quale i civili sotto assedio sono più del doppio: oltre un milione in 46 diverse comunità. Tra queste Deir Ezzor, Madaya, Zabadani, Fu’a, Kefraya, Yarmouk, nomi ormai diventati familiari insieme alle immagini che da quei luoghi arrivano: bambini, anziani, donne e uomini ridotti a pelle e ossa per la mancanza cronica di cibo.

Sullo sfondo della conferenza stampa di Ginevra resta Aleppo, la battaglia “finale” com’è stata definita. Considerata dal fronte anti-Assad la ragione del fallimento di Ginevra, la controffensiva (sostenuta da Hezbollah, pasdaran e russi) ha permesso a Damasco di rafforzarsi sia sul piano diplomatico che militare.

Ad Aleppo si continua a combattere: le truppe del governo hanno circondato i quartieri che le opposizioni controllano dal 2012, mentre la fuga dei civili non si arresta. Secondo gli ultimi dati sarebbero 100mila i siriani arrivati nel campo profughi nato in pochi giorni al confine con la Turchia, al valico di frontiera di Bab al-Salama, drammaticamente chiuso.

Della volatilità dell’accordo di Monaco ne sono consapevoli tutti. A partire dagli Stati uniti: giovedì il segretario di Stato Kerry lo ha detto senza mezzi termini, si tratta di «un accordo su carta». Per questo sarà creata una task force che monitorerà l’effettiva cessazione degli scontri e la consegna degli aiuti e che sarà composta da rappresentanti delle opposizioni e del governo. A supervisionare saranno Mosca, Washington e Palazzo di Vetro.