Stravolgere l’apparato concettuale del diritto del lavoro di un paese, come ha fatto il Jobs Act, comporta una serie di danni collaterali. Ad esempio, gli assunti a contratto a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015, data di approvazione della «riforma» del Pd e di Renzi, sono incomparabilmente più licenziabili di chi ha un contratto firmato solo il giorno prima. I lavoratori assunti dopo il 2012, anno della riforma Fornero, se la passano comunque male, anche se un po’ meglio. E via così a ritroso.

PRIMA DEL 2012, quando l’articolo 18 era vivo e vegeto, il dipendende ingiustamente allontanato, non solo riceveva un’indennità economica ma poteva scegliere di ottenere il reinserimento sul luogo di lavoro. Non importava se la prestazione lavorativa fosse durata due mesi, due anni, o una vita intera, l’ingiustizia di un licenziamento, una volta appurata, veniva risolta dalla legge, a tutela della parte lesa, il lavoratore. Dopo le ultime due riforme il reintegro è previsto solo nei casi di licenziamenti discriminatori.

L’indennità economica è misurata in base all’anzianità, cioè agli anni di lavoro erogato. Dal Jobs Act in poi il licenziamento senza un motivo valido può costare all’azienda il pagamento solo di un’indennità pari a due mensilità per ogni anno di servizio. Un’«emozione da poco» per un’impresa che decide di licenziare un neoassunto. Un mercato del lavoro, già afflitto dalla precarietà e dalla disoccupazione giovanile, è diventato insostenibile.

IL PRONUNCIAMENTO della Corte costituzionale che ha bocciato l’articolo 3 del Jobs Act ha posto un freno a questa deriva invocando, tra gli altri, proprio il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. L’espressione «tutele crescenti» – marchio di fabbrica della «riforma» Renzi – è una dicitura che usa due parole positive per esprimere una realtà negativa: quella della quasi assenza di garanzie per chi firma un contratto oggi. «Tutele? Forse domani» sarebbe stato un modo più onesto di raccontarlo.

IL «DECRETO DIGNITÀ» ha messo un piccola toppa ampliando, ma solo per i lavoratori che prestano meno di due anni di servizio o più di tredici anni, il limite minimo e massimo delle indennità. Ha portato la minima all’equivalente di 6 mesi di retribuzione, invece che i 4 stabiliti dal Jobsact, e la massima a 36, al posto dei 24 della riforma del 2015. Il criterio tuttavia è rimasto invariato: l’anzianità del contratto di lavoro.

LA NOTA DELLA CONSULTA rimane sul terreno dell’indennità economica e non insidia l’apparato ideologico già affermato dalla «riforma» Fornero che derubrica la tutela dei lavoratori a un mera questione numerica, quantitativa. Tuttavia indica la necessità di individuare criteri più equi di risarcimento. Un piccolo passo indietro nel rapido cammino verso il baratro del diritto del lavoro in Italia.