La pesante condanna inflitta a Mimmo Lucano ha scatenato la politica di bassa cucina, come dimostra l’aggancio (inesistente) al caso Morisi. Convulsioni inevitabili, a poche ore da un voto amministrativo non privo di riflessi politici.

Le sentenze si accettano, indubbiamente. L’errore, quando c’è, va corretto nei modi e secondo le procedure previste. Ma questo non preclude la critica, possibile ed anzi doverosa, se la potestà punitiva dello Stato non è correttamente esercitata. Tale è il caso della sentenza di Locri, censurabile non già per ragioni politiche, ma per le sue incongruenze.

Una domanda preliminare: può un sindaco per ragioni umanitarie violare consapevolmente le norme che disciplinano i suoi poteri amministrativi? La risposta è negativa, anche se la motivazione è cercata nella diretta attuazione di valori costituzionali.

La febbre politica e istituzionale è alta se un sindaco si sente costretto a una disobbedienza civile, che non gli è consentita. Se la praticasse, incorrerebbe secondo i casi in responsabilità civili, penali, amministrative.

Dai fatti noti, Lucano ha tenuto comportamenti che un sindaco prudente avrebbe evitato. Una condanna era possibile, e una piena assoluzione forse difficile da prevedere. Ma un medesimo fatto può avere qualificazioni giuridiche diverse, mentre possono essere riconosciute o meno attenuanti, ad esempio per motivi di particolare valore morale o sociale.

Qui cominciamo a percepire una distanza dalla sentenza di Locri.

Colpisce, anzitutto, che la sentenza abbia praticamente raddoppiato la misura della pena rispetto alle richieste dell’accusa. Normalmente, non accade. La distanza tra il richiesto e il deciso indica che la sentenza assume un impianto interpretativo e decisorio diverso da quello dell’accusa. È il segno che qualcuno ha sbagliato: o la pubblica accusa, o il giudice. Non possono entrambi aver fatto al meglio il proprio mestiere. È paradossale il compiacimento espresso dal procuratore di Locri per la conferma dell’impianto accusatorio.

La sentenza: Lucano ha ripetutamente e dolosamente violato la legge nell’ambito di un vasto e sistematico disegno criminoso, forse non specificamente finalizzato a favorire l’immigrazione illegale, ma comunque volto a gestire clientele e conseguire per sé ed altri vantaggi, anche economici. Un impianto tale da giungere a una pena cumulata non lontana da quella che si riterrebbe congrua per gravi fatti mafiosi o di sangue. E sembra essere proprio qui la diversità rispetto all’accusa.

La più contenuta misura della condanna richiesta dall’accusa suggerisce che un’altra lettura era possibile. Una lettura che avrebbe forse consentito anche le attenuanti, precluse invece dalla ricostruzione data in sentenza, ovviamente incompatibile con il riconoscimento di motivi di particolare valore morale o sociale. E che probabilmente non avrebbe condotto alla sanzione di oltre mezzo milione di euro.

Aspetteremo le motivazioni. Ma intanto, dai fatti noti e da quel che si sa sullo svolgimento del giudizio, viene un dubbio sul pesantissimo impianto decisorio adottato. Dall’abuso di ufficio alla truffa e al peculato corre un mare.

Di grandi imbroglioni e truffatori ne abbiamo conosciuti non pochi, e sono altra cosa. Non si può omettere di considerare che – a quanto sappiamo – non risulta alcun lucro o arricchimento personale per Lucano. Non crediamo a tesi complottiste su una precisa volontà politica e/o giudiziale di criminalizzare la solidarietà o sabotare l’accoglienza. Né dubitiamo che il giudice sia in coscienza convinto dell’impianto assunto in decisione. Ma non troviamo riscontri che la sua convinzione sia pienamente fondata e condivisibile.

Per questo esprimiamo a Lucano solidarietà umana e politica per una sentenza che – senza polemica – riteniamo avrebbe potuto e dovuto essere diversa. Potrà essere corretta. Ma non sarà ripagato il danno morale a chi è stato condannato. Come rimarrà il danno per una decisione assunta a poche ore dal voto, tale da incidere sull’esito. Questo avrebbe dovuto suggerire al giudice un’altra tempistica, per non entrare a gamba tesa nell’agone politico.

Nell’insieme, un cattivo servizio alla causa della giustizia. Ma poteva andare anche peggio. Ad esempio, se la sentenza fosse venuta a seguire una indicazione legislativa di priorità al pubblico ministero, come da riforma così cara ad alcuni.