I fratelli Duprat, autori di quell’ingegnoso congegno narrativo e drammaturgico che è Il cittadino illustre, con il quale l’attore Oscar Martinez ha vinto la Coppa Volpi, sono tornati a Venezia con Mi obra maestra, Il mio capolavoro, un’altra commedia nera sul lavoro artistico-intellettuale. Si potrebbe dire oggi facile obiettivo di sarcasmo questo del ruolo della cultura, ma dietro a questo racconto, che ha per protagonisti due inattesi sodali, un gallerista e un pittore fuori moda, si percepisce anche una tensione etica, che fa ridere amaro. Tra Borges e il Rohmer dei Racconti morali, i due personaggi, interpretati da due star della televisione argentina, Guillermo Francella e Luis Brandoni, discutono e complottano intorno al senso (ovvero l’insensatezza) del lavoro artistico oggi, dominato da un mercato volatile e modaiolo, in una Buenos Aires solo in apparenza lontana dal baratro in cui può precipitare da un momento all’altro. Il film, proposto Fuori Concorso e accolto in sala da un fragoroso applauso, ha già una distribuzione italiana. Incontriamo lo sceneggiatore del film, Andres Duprat, direttore del Museo Nazionale delle Belle Arti di Buenos Aires e fratello più giovane del regista Gaston, prima delle piogge tropicali che stanno sconvolgendo il Lido.

All’inizio del film il personaggio esprime il suo amore per Buenos Aires, senza dimenticarne però le contraddizioni.

Molti di quelli che arrivano a Buenos Aires dicono che assomiglia a tante capitali europee, ma allo stesso tempo è anche una città molto sudamericana, contiene tutti i contrasti e le complessità dell’America Latina. Si ha la sensazione che lì possa succedere qualsiasi cosa. Come diceva Andre Malraux, Buenos Aires è la capitale di un impero mai esistito… Questo rende più credibile una storia come quella del film, il racconto di un segreto, dove realtà e finzione si mescolano inestricabilmente, mettendo in luce gli aspetti ambigui del mondo dell’arte. Borges diceva che l’Argentina risente dell’eredità culturale dell’Europa più che di un singolo paese europeo.

…Anche per via della grande emigrazione.

Certo l’Argentina è abitata anche da tantissimi emigrati italiani, il personaggio del pittore si chiama Renzo e i due attori, Francella e Brandoni, sono di origine italiana. L’immigrazione europea ha influenzato molto la cultura nazionale, anche perché la comunità nativa è piccola, da noi. Certo è stata sterminata a suo tempo, ma anche perché era una comunità che non aveva una cultura forte come i Maya o gli Inca. La nostra cultura è europea quanto latino americana…

Ne «Il cittadino illustre» vi siete occupati di letteratura ora invece di arte, ma sempre del lavoro intellettuale.

Siamo tutti legati all’arte: io con il Museo, Gaston e Mariano (Cohn, produttore del film, e collaboratore fisso dei Duprat, ndr) lavoravano come videoartisti. L’arte visiva, diversamente da altre forme culturali, si è chiusa nel suo ghetto e ha bisogno di critici, di chi spieghi alla gente cosa significa e soprattutto di chi attribuisca all’opera un valore. Ma oggi valore vuol dire prezzo. La gente comune viene lasciata fuori. Questi sono atteggiamenti reazionari, fascisti, che stabiliscono cosa va bene e cosa no per la gente. Per questo abbiamo cercato di ridere di questa frivolezza insana. Il cinema invece arriva alla gente anche senza spiegazioni, senza che ti possano dire cosa pensare. Negli anni Venti quando Duchamp ha fatto La fontana, utilizzando un pezzo industriale (un orinatoio pubblico, ndr) ha fatto un gesto sovversivo, che metteva in discussione cosa era un oggetto artistico. Dopo c’è stata imitazione, ripetizione e il gesto ha perduto il suo senso artistico. Oggi critici, galleristi, direttori definiscono cosa è l’arte, che quindi perde la sua libertà. Prima bastava dipingere e si poteva scomparire: c’era il quadro e chi lo guardava. Io odio i mediatori. Nella musica e nel cinema per fortuna questo non c’è.

In un certo senso il vostro film si trasforma quindi in una metafora del cinema.

Domanda interessante. Ci sono opere che cambiano lo sguardo ma quando quello stile viene copiato o imitato, perde impatto. Kiarostami ha proposto un modo di raccontare suo, ma poi centinaia di registi lo hanno imitato e quel modo di fare cinema si è diluito. Noi vogliamo un’espressione artistica ampia: un film può avere una lettura più profonda per chi vuole approfondirlo, ma deve essere anche capace di raggiungere il grande pubblico. L’arte deve essere umana, il destinatario è l’uomo.

Talvolta proponete delle frasi fatte come «l’artista parla attraverso l’opera» oppure «è l’opera che ti dice quando è finita»…

Volevamo mettere in ridicolo questi luoghi comuni. Nel film il pittore al tramonto appartiene a una generazione passata, e ha ancora uno sguardo romantico sull’arte: è un ribelle, cui non interessa il mercato del suo lavoro, vuole sinceramente fare arte, non essere un artista. Per questa figura ci siamo ispirati a un pittore importante degli anni Ottanta, di origine basca, Carlos Gorriarena, e le opere di Renzo che vediamo sono i suoi quadri. Era un pittore figurativo molto originale. Ma quello che ci interessava era anche descrivere il disagio di chi si sente superato, dell’artista che all’improvviso non ha più successo e ha difficoltà a spiegarselo, a capire. E volevamo mostrare l’amicizia tra il gallerista e l’artista, che appartengono entrambi a una vecchia generazione. La truffa e la menzogna entrano in gioco per mostrare il backstage di questo mondo.

E il quadro antico che secondo Renzo è un capolavoro, che il suo amico gli regala?

È di Augusto Ferrari, un importante artista italiano emigrato, il cui figlio Leon è stato uno dei più importanti artisti argentini contemporanei. Nel film abbiamo mostrato alcune sue opere, come il Cristo con le braccia aperte che diventa un bombardiere americano, che si intitola La civiltà occidentale-cristiana (opera spesso censurata, ndr). Leon ha esposto nel 2007 alla Biennale qui a Venezia.

Come vi ponete verso quella frase cinica del dialogo sugli artisti che sarebbero ambiziosi ed egoisti, che fanno cose che interessano solamente a loro.

L’aspirazione morale è un buon ricordo.