La Brexit è, in ordine di tempo, l’ultimo campanello d’allarme sullo stato delle relazioni politico-istituzionali ed economiche del così detto modello neo-liberista. Che segue la crisi precedente della Grexit, il cui spettro è sempre presente. L’incertezza e la costanza di rischi sistemici, che provengono dai mercati reali e finanziari, è il dato strutturale della crisi del rapporto tra capitalismo e Stato. Si tratta di crisi che non sono affrontabili con un approccio riformatore.

Il modello neo-liberista è orientato/condizionato dai flussi finanziari e valutari che permettono di realizzare dei rendimenti di breve e brevissimo periodo, compromettendo le basi della stabilità delle economie reali. Quello che è evidente è la supremazia dei “mercati del capitalismo” e l’assenza delle “istituzioni del capitalismo” (per citare Paolo Leon).

Brexit richiama le domande di fondo circa le prospettive del capitalismo.

C’è qualcosa di più profondo e inedito nella disputa pro-contro Brexit: è l’inizio della fine di un paradigma, più precisamente del paradigma reaganiano-thatcheriano che ha costruito un particolare equilibrio tra Stato e capitale? Cosa si cela dietro l’eventuale esaurimento di questo particolare paradigma? Quali sono i fenomeni sociali, economici e riproduttivi del capitale che lo possono determinare? Il paradigma, reaganiano-thatcheriano, ha la forza endogena per rigenerarsi e quindi perpetuarsi?

Queste domande cominciano ad affacciarsi e non sono più un tabù (v. la tavola rotonda su Il Sole 24 ore di ieri).

Sebbene il governatore della Banca d’Italia ricordi che «le banche centrali sono attrezzate per rispondere a un’eventuale turbolenza», gli effetti non sono pre-determinati ed è «difficile decifrare il possibile effetto politico in Europa, perché Brexit potrebbe portare a due opposte reazioni: potrebbe rafforzare le forze centrifughe in Europa oppure quelle centripete. – vale a dire una deflagrazione oppure un’altra Europa, ndr -. Per realizzarsi, questo secondo scenario richiede molta leadership politica; anche se difficile sarebbe la risposta più corretta».

Romano Prodi ricorda che la Gran Bretagna è un Paese anomalo: è fuori dall’euro ed è fuori dalla libera circolazione delle persone – i disperati di Calais ne sanno qualcosa -, ma allo stesso tempo tratta con l’Europa condizionandola oltre misura: «Il che significa semplicemente una cosa: ogni volta che voi fate un passo in avanti, io mi fermo». Il ministro Padoan avanza delle riflessioni stavolta coraggiose che richiamano le domande di fondo sullo sviluppo del capitalismo europeo: «Mi chiedo che cosa succederebbe nel caso di uscita della Gran Bretagna, con un’Unione che riparte da 27. L’Ue non sarà più quella di prima. E questo è un fatto. Le implicazioni per l’Europa, indipendentemente o meno dalla questione dell’effetto-imitazione politica a livello di singolo Paese, saranno rilevanti». Padoan continua dicendo: «Mi chiedo da dove ripartiranno progetti strategici come la capital market Union, mi chiedo quale sarà l’agenda europea a 5 o 10 anni senza la Gran Bretagna. Si determinerebbe un gap policy making molto forte, che i leader politici dell’Unione dovranno colmare. La Ue farebbe un grave errore se provasse ad andare avanti come se nulla fosse accaduto. Dobbiamo riconsiderare la situazione, anche se Brexit non ci sarà, perché c’è stato già evidentemente il vulnus politico». Difficile non concordare con queste suggestioni.

Ma, almeno per una volta, cerchiamo di essere più espliciti. Quello che è in gioco è il multilateralismo del modello neo-liberista, nel mentre non si affacciano nuovi modelli. La domanda che l’Unione Europea deve affrontare è semplice, ma drammatica per una istituzione che non è né carne né pesce: cosa farò da grande? Con una ulteriore aggravante: l’Europa rimane ancorata a modelli d’equilibrio neoclassici, ed è diventata lo snodo periferico della crisi internazionale. Le politiche adottate hanno permesso la speculazione (estera).

Il problema dell’Europa istituzione è l’equilibrio e, quindi, la competitività internazionale, non la domanda effettiva. Ma l’era dell’equilibrio deve lasciare il posto alle politiche proattive (welfare state, innovativa politica industriale e fiscale). Alla fine anche l’Europa sarà costretta a misurarsi con il problema della domanda effettiva, del lavoro (e della sua nuova capacità organizzativa), del capitale e dell’economia reale. Si tratta di capire come e chi guiderà il processo di ricostruzione delle (nuove) istituzioni del capitale europeo e internazionale. L’uscita dalla crisi passa dalla ricostruzione della domanda effettiva, dal lavoro e dal capitale, via domanda aggiuntiva (pubblica). La Brexit non è solo un conflitto legato al disavanzo delle partite correnti. Sono un problema, ma in gioco sono le nuove istituzioni del capitale che devono governare il processo di trasformazione, in particolare il peso e ruolo dell’istituzione Stato che deve essere grande, in particolare nelle idee.