Avanzano verso l’obiettivo di Corrado Franco i senzatetto torinesi che hanno collaborato al suo ultimo film Al Di Qua come a presentarsi, a farsi infine conoscere, popolo invisibile dei clochard sempre più numeroso. Nella nostra società che porta quotidianamente alla ribalta televisiva i casi più eclatanti della crisi senza per questo lasciare alcuna traccia e in cui il nostro cinema, pilotato verso la commedia è latitante su certi argomenti a parte pochi durissimi esempi (Ivano De Matteo con Gli equilibristi, Daniele Vicari con Sole cuore amore), è stato realizzato questo film anomalo che già alla sua uscita lo scorso anno aveva suscitato grande attenzione, anche per il suo ritorno alla regia dopo film che lo misero in evidenza come Al riparo di sguardi indiscreti (’81), L’ultima corsa (’83), Corsa in discesa (’90), vincitore di un Globo d’Oro e un Nastro d’Argento, e in corsa per gli Oscar con L’ultima questione (2001). Proprio il giorno prima della pubblicazione dei dati Istat sulla povertà Al Di Qua è stato proiettato al Senato, alla presenza di politici e sindacalisti, accompagnato da una lettera del presidente Pietro Grasso che si percepisce, per quanto possibile, non formale («..è prioritario un ripensamento dell’economia che metta al centro del suo interesse non il profitto fine a se stesso, il potere, il denaro, ma la persona, i suoi bisogni, il rispetto delle regole e la saggezza delle decisioni»…)
Costruito con una ferma dimensione di discorso morale ben lontana dal consumo sul tema «povertà», in un bianco e nero esenziale, Al Di Qua mette in primo piano un gruppo di senzatetto che raccontano le loro storie di vita nei corridoi dell’ospedale Martini dove sono andati tutti insieme a rendere l’ultimo omaggio uno di loro trovato morto per strada. La presentazione di questi uomini provati avviene frontalmente all’obiettivo con il proibito «sguardo in camera» fisso che mette in moto riflessioni e spalanca uno sguardo sterminato sulla nostra società e oltre i confini. Infatti è il rude Emanuel detto «Javier Bardem»per la sua somiglianza con l’attore, figura picaresca e orgogliosa a inaugurare la sequenza, ex soldato di Bosnia Erzegovina, con tremende ferite da kalashnikov, convinto assertore dell’assenza di dio su questa terra, immerso in una solitudine più feroce della guerra. Alcuni dormono sotto gli eleganti portici nella Torino travolta dalla crisi, vivono una vita di umiliazioni e di gelo. Altri arrivano dal sud, ma non come gli immigrati degli anni sessanta: laggiù hanno perso tutto e quassù non hanno trovato niente. La depressione li ha travolti, si è spenta la luce, come dice uno di loro. Antonino venuto da Reggio Calabria non conosceva l’ambiente dei senzatetto e non sapeva come muoversi, aveva perso tutto con il gioco d’azzardo, Rosario, siciliano di poche parole ma lapidarie traccia una visione dell’«al di qua» senza vie d’uscita, Lorenzo camionista per venti anni, caduto in depressione per la morte del padre trova nell’indifferenza, nel menegfreghismo della gente (e delle associazioni) la caratteristica principale della società. Un altro, sinteticamente, dice di aver avuto una ditta che dava lavoro a tante persone. Gerlando arrivato a Torino a fare il muratore è tornato al sud alla notizia della morte della madre («era un periodo in cui non ci pagavano») e poi , una volta tornato non ha più trovato lavoro. Ora è impegnato nell’attività «Materiali di scarto» intorno al quale il prete del Martini don Gian Paolo impegna alcuni di loro in opere di artistica manualità. L’idea del film, «progetto sui poveri realizzato in povertà», raccontava Corrado Franco, era nata proprio come un video che serviva a un convegno richiesto dal cappellano del Martini. Ai racconti in prima persona, fanno da filtro alla curiosità del pubblico allenata da anni di voyerismo televisivo, lo schema di domande e risposte precise sul perché ci si è trovati in una situazione di assoluta povertà, una possibile fede nell’aldilà o nell’«aldiqua», brani da Rilke, la musica dalla «Passione secondo Matteo» di Bach che procede con durezza non pasoliniana. E la poesia «A Dio» della poetessa Gigliola Franco, madre del regista che lui ha accudito a lungo da un doloroso e progressivo Parkinson. Ora Corrado Franco è tornato al cinema: non al cinema, alla politica, direbbe.