Poco sappiamo di un prototipo della letteratura moderna e archetipo di quella picaresca, un testo infatti adespoto e anepigrafo come si dice in filologia, perché non conosciamo chi l’ha scritto (secoli di congetture lo hanno attribuito ad autori in genere di seconda fila, persino ecclesiastici sulla via del Concilio tridentino) né siamo a conoscenza di un titolo che non sia quello fissato dalla tradizione a stampa, Lazarillo de Tormes, quando il nome del protagonista, la voce stessa del narratore, è un semplice «Lázaro». Inoltre non è noto un manoscritto (o qualcosa di simile che il proto abbia utilizzato) né la cosiddetta princeps, congetturabile al 1552/’53, ma soltanto quattro sue ristampe dell’anno successivo, differenti tra loro e uscite in un’area estesa tra Burgos e Anversa. Ciò significa non poter risalire con il metodo di Lachmann a un originale ma neanche privilegiare uno tra i primi quattro testimoni a stampa come si trattasse, alla maniera di Joseph Bédier, di un codex optimus.
Un simile caso filologico, così inquinato alla fonte (perché ad esempio il prologo e la scansione in capitoli sono stati imposti da una lunga consuetudine tipografica), può produrre tuttavia, con una certa attitudine divinatoria e un orecchio finissimo, l’edizione che se non è «critica», alla lettera, ne incarna comunque lo spirito e la affidabilità: è il caso del Lazarillo de Tormes (Adelphi «Biblioteca», pp. 162, € 18.00) a cura di un maestro della filologia romanza, Francisco Rico, che include il testo in castigliano a seguire, firma l’introduzione e gli apparati nonché sovraintende alla notevole versione di Angelo Valastro Canale che non solo aderisce ma sa cogliere in essenza uno stile complesso, e capace di dissimularlo, presentandosi semplice, sbrigativo, quasi gettato lì sulla pagina. Ma chi scriveva era certo a conoscenza dei classici (specie latini, e reiterate citazioni da Cicerone e Plinio hanno la funzione delle mani avanti) come di un procedimento narrativo a cannocchiale o se vogliamo di mise en abyme, per cui chi parla (Lazarillo in persona) rievoca fatti del passato nello stesso momento in cui si rivolge a una autorità cui riferisce, in una lunga missiva, il curriculo della vita precedente, emarginata e sbandata: perciò, a suo modo, si tratta di un verbale e nel frattempo di un romanzo epistolare.
Tra Salamanca e Toledo
L’azione si svolge al tempo di Carlo V, tra Salamanca e Toledo. Il pìcaro se ne va presto di casa e vive alla ventura non avendo da offrire altro se non i propri servigi a qualcuno che sia un uomo libero e disponga di un poco di denaro (o in sostanza di vitto e alloggio). Sempre sotto padrone, la sua trafila è risaputa, prima un cieco taccagno e cattivo, poi un chierico non meno pitocco, poi uno scudiero (maniaco del puntiglio di casta e odiatore delle «genti meccaniche»), poi ancora un chierico cialtrone e truffatore (un frate Cipolla redivivo), quindi un dipintore, un aiutante sbirro e infine l’uomo a cui sta raccontando la sua vita mentre spera in una qualche promozione: Lazarillo è oramai un impiegato e si è sposato addirittura, sia pure con una giovane perpetua, bisbetica e dai dubbi costumi. È un giovane sveglio, ad ogni tappa della sua piccola odissea trova una morale, un insegnamento da tesaurizzare: e che il suo sia un viaggio pedagogico lo confermano non pochi rilievi del tipo «mi sembrò di svegliarmi di botto dalla ingenuità in cui dormivo, da bimbo quale ero». Egli non persegue altro obiettivo se non quello di sopravvivere agli affanni quotidiani, che si riducono a mangiare, avere un letto e un vestito. Anzi, nonostante la leggerezza del tocco e l’aria festosa, musicale, che pervade il racconto, la sua in realtà è una dura epopea della fame di cui, almeno a posteriori, è ben consapevole: «Se è vero, com’è vero, che la necessità è una gran maestra, io che ce l’avevo sempre di fianco, pensavo notte e giorno a tirare a campare e credo proprio fu la fame a illuminarmi e a farmi trovare gli oscuri rimedi che di fatto trovai, perché dicono che la fame aguzza l’ingegno, mentre la pancia piena fa il contrario».
Humour, malizia e carità cristiana
Rico allude all’ilare materialismo del personaggio e ne parla come di «una meraviglia di humour e umanità» soprattutto riferendosi al suo relativismo, lo stesso di chi nella vita le ha passate tutte e troppe ma senza nulla concedere al pessimismo o, meno che mai, al cinismo: dopo tutto, alla fine del referto-lettera indirizzata a un qualche conestabile, Lazarillo mostra una residua ingenuità credendo all’innocenza di sua moglie (probabile amante del canonico), per quieto vivere o forse per non rinunciare al solo frutto certo della trascorsa odissea. Lazarillo non è dunque Bertoldo ma neanche è il villano su cui infierisce la millenaria tradizione della satira. Al riguardo, Rico parla dell’umanesimo del personaggio come di un incontro fra una «deliziosa malizia» e la carità cristiana. (E ne dà conto minutamente in una annotazione che dovrebbe restare esempio di chiarezza, misura e sobrietà qui in Italia, dove gli apparati oggi tendono a lievitare come abnormi e parassitarie copiae descriptae. Non certo per snobismo, ma proprio per saturazione, lo studioso ha dichiarato a Marco Cicala, in una recente intervista sul «venerdì di Repubblica»: «Quanto alle note sono poche e in coda. Che noia le note. Vero?»). Anche il poeta che l’aveva tradotto nel’72 da Einaudi e ad uso della generazione contestatrice per la collana «Centopagine» di Italo Calvino, cioè l’ispanista Vittorio Bodini, parlava allora di un personaggio pervaso da un misterioso filtro di umanità.
Ma in effetti se Lazarillo sembra avere scarsi ascendenti somiglia, viceversa, a molti suoi eredi e degeneri dentro il presto affollatissimo vivaio dei pìcari. Alle sue spalle, in Italia, c’è lo Speculum cerretanorum di Teseo Pini, seconda metà del secolo XV, edito con altri testi di furfanteria in un prezioso apporto di Piero Camporesi, Il libro dei vagabondi (Einaudi 1973), che mette in epigrafe il verso latino anonimo già appartenuto a Teocrito, Sola est paupertas, artes quae suscitat omnes («la povertà sola genera tutte le arti»), il cui corrispettivo, secoli dopo, sta nel primo dei racconti di Ragazzi di vita (’55) col Riccetto e gli altri pischelli a zonzo tra le marane e gli sterri di Donna Olimpia. Le diramazioni del picaresco nella letteratura europea, e nel romanzo specialmente, non si contano: in Inghilterra basterebbero i nomi di Defoe (Moll Flanders, Lady Roxana) e Dickens (Oliver Twist), in Francia del comunardo Jules Vallès, il cui capolavoro, L’enfant (1879), Feltrinelli non ristampa da una vita, e su tutti il Voyage au bout de la nuit, romanzo di un pìcaro indimenticabile a nome Bardamu. Quanto alla letteratura iberica, oltre ai nomi ovvi di Quevedo e del Gil Blas non viene mai abbastanza rammentato che l’ultimo grande omaggio a Lazarillo è il film messicano di Luis Buñuel, Los olvidados (1950), palese nell’episodio terribile della lapidazione del cieco. Pure se ha cercato più volte di glissare sul riferimento (come nell’intervista del 1986 in appendice alla sceneggiatura I figli della violenza, Linea d’ombra 1993) alla fine don Luis ha ammesso anche lui l’influenza del piccolo grande classico: «Ci fu chi disse che sembrava un cieco spagnolo uscito dal romanzo picaresco, per esempio dal Lazarillo de Tormes… Può darsi, può darsi … in ogni caso sì, è un cieco avaro, e furbo, e schivo …».