Si dice che quando alla fine degli anni Quaranta fu pubblicato Cré na Cille (che alla lettera vuol dire «l’argilla del camposanto») fossero i giovani nipoti, freschi studenti di lingua irlandese, a leggerlo ai nonni analfabeti. L’autore, un insegnante nazionalista, socialista, anticlericale rimasto senza lavoro perché licenziato per le sue idee dal prete che dirigeva la scuola, lo aveva scritto in carcere fra il 1940 e il ’44, immergendosi nello studio delle lingue e delle letterature europee e ricreando sulla carta, nella sua solitudine forzata, l’intrico di voci libere, umorose e impenitenti di un paesino dell’Irlanda occidentale. Uscito lui dal carcere e proposto il libro a un editore, questi lo rifiutò con una motivazione decisamente lusinghiera: era a suo dire «troppo joyciano». Ora, dopo due discusse traduzioni in inglese, esce anche in italiano per Edizioni Lindau Parole nella polvere di Máirtín Ó Cadhain (pp. 400, euro 26), il più sfrenato e grandioso romanzo mai scritto in lingua irlandese. A lavorarci – a partire, va detto, non dal testo originale ma dalle versioni inglesi – è stato un affiatato team di quattro traduttori (Luisa Anzolin, Laura Macedonio, Vincenzo Perna e Thais Siciliano).

POLVERE SONO, le voci di questo romanzo, e polvere non vogliono ritornare: anzi la polvere non intende star zitta e prende la parola. Come in una insonne trasmissione radio, le salme continuano a litigare su beghe di paese (matrimoni, furtarelli, modi di vivere e di morire) e sui massimi sistemi; il cimitero diventa un caotico condominio, una piazza di mercato, un cortile vociferante. I «mortacci» si insultano, spettegolano, berciano, si danno sulla voce, sgomitano e si minacciano in uno scompiglio eterno che non trova pace. E su tutte le altre figure giganteggia l’odio maestoso di Caitríona Pháidín, acceso dal risentimento per la sorella Nell, che le ha soffiato il ragazzo di cui era innamorata.
In modo colpevolmente consolatorio, si è pensato che nell’aldilà i defunti debbano guardare alla vita precedente da una prospettiva metafisica, se non pacificata: qui tengono invece banco i guai, le offese e i dispetti del tempo mortale. E le ingiustizie.

LA MORTE non è per nessuno una livella. Il chiacchiericcio prosegue proprio come accadeva nel mondo di sopra, per strada, al pub o alla fermata dell’autobus; l’eterna commedia umana prende tinte esilaranti: ci si accapiglia per chi deve stare nei lotti da mezza ghinea o da una sterlina, si organizzano elezioni fra i morti o circoli culturali. E visto che «ogni irlandese ha l’obbligo morale di scoprire se ha il dono della scrittura», allora ecco anche il maestro di scuola che ha scritto una pletora di romanzi e poesie, avvolto dalla devozione zuccherosa di una beghina delle lettere. La satira delle ambizioni piccine di chi «fa cultura» colpisce l’impotenza e la complicità di una letteratura che resta provinciale e non sa mirare a un reale cambiamento dello stato delle cose.
In questa miriade di echi e ritornelli (ciascuno ha il suo: segno del carattere, marca individuale del parlato: «Sto per scoppiare! Scoppio!»), riemerge anche un pilota francese precipitato col suo aereo al largo del Connemara, e spesso salta fuori a infestare persino il mondo dei morti il nome di Hitler, che in quegli anni stava devastando l’Europa. La conclusione tocca il segno di una irriconciliata pietas filosofica: «se solo fossi vissuto ancora un po’!»

CON MIRABILE sprezzatura modernista, in Parole nella polvere sono le voci stesse, nel loro intreccio pirotecnico di dialetti terragni ed esclamazioni, a disegnare i profili della trama; non c’è alcuna narrazione esterna, salvo, negli interludi, il richiamo tetro della Tromba del cimitero, che risuonerà alla fine dei tempi e guarda da una prospettiva cosmica, per dirla con Dante, «l’aiuola che ci fa tanto feroci». Dietro il carnevalesco travestimento comico di Cré na Cille emergono le questioni più brucianti di un’Irlanda rurale, poverissima, largamente analfabeta, periferia d’Europa silenziata dal colonialismo britannico e per tutta la seconda guerra mondiale immersa nella neutralità dell’ «Emergency».
La voce che non si può soffocare è allora proprio il politico, lo scandalo della coscienza che non lascia seppellire le rivendicazioni di libertà, né permette si taccia l’idioma nazionale a cui ridà letteralmente la parola. Infatti la lingua irlandese stessa (lo ha notato Declan Kiberd) è sempre in predicato di estinguersi, come il cadavere del Finnegan joyciano nella sua veglia, ma paradossalmente, tramite la letteratura, non fa altro che risorgere dal suo sonno di morte. Per aggiungere ancora nuove parole all’ultima parola: quella che non è mai detta una volta per sempre.