Molto singolare il destino di Octave Mirbeau, autore di due romanzi che all’epoca fecero scandalo: Le Jardin de supplices (1899) e Le Journal d’une femme de chambre (1900), quest’ultimo conosciuto soprattutto per la riduzione cinematografica di Luis Buñuel, interpretata da Jeanne Moreau (una precedente versione uscì con la regia di Jean Renoir). Mirbeau ebbe in vita una certa notorietà, dovuta sia alla sua attività di giornalista per «Le Figaro» e «Le Gaulois», cui seguirà la collaborazione a periodici progressisti quali «L’Aurore» e «L’Humanité», sia per la sua fede anarchica e l’impegno a favore di Zola nel celebre affare Dreyfus.

Partito da posizioni affini a quelle del naturalismo, con il tempo se ne distaccherà, seguendo un percorso analogo a quello di Huysmans, per orientarsi verso un tipo di narrazione tesa a investigare le controversie del mondo psicologico che, di lì a poco, sfoceranno nella scoperta dell’inconscio freudiano. Oltre che commediografo (Les affaires sont les affaires la sua pièce più importante), fu romanziere di spicco che pubblicò Le Calvaire (1887), L’Abbé Jules (1888) e il mirabile Sébastien Roch (1890), dove ripercorre la vicenda autobiografica, quanto mai attuale, di un ragazzino che subisce violenza da parte di uno dei sacerdoti istruttori di un convento gesuita. Ma non si può passare sotto silenzio altri fondamentali lavori come il romanzo breve Dans le ciel, il cui protagonista Victor è ispirato alla figura di Van Gogh, o La Mort de Balzac, dove vengono sapientemente ripercorse le ultime ore dell’autore del Père Goriot. A tali titoli si devono perlomeno aggiungere il romanzo Dingo (1912) e i Combats esthétiques et littéraires in cui Mirbeau si adopera al fine di sdoganare le nuove correnti artistiche e letterarie, che lo videro in prima linea nel sostenere Degas, Monet, Rodin, Zola e Bloy.

L’uscita dei Cahiers
Ridimensionato dopo la sua morte, Mirbeau è stato riscoperto in Francia in questi ultimi decenni, con la pubblicazione di tutti i suoi lavori più significativi e di parecchi inediti (si consideri al riguardo che l’autore fu uno dei più ricercati ghostwriters). Nel 1993 è stata creata la Societé Octave Mirbeau che pubblica i Cahiers dedicati allo scrittore normanno e si è prodigata nell’intento di diffondere la sua opera. Sull’onda di tale riscoperta abbiamo assistito anche nel nostro paese a un proliferare di traduzioni dedicate ai titoli più rilevanti (con Marsilio, Castelvecchi e Skira in prima linea), anche se paradossalmente da tempo non sono più disponibili Le Calvaire, considerato il suo capolavoro, e il controverso Jardin des supplices, in cui si porta alle estreme conseguenze un certo esotismo fin de siècle infarcito di echi sadiani, anticipatore delle perversioni batailliane (o, in ambito figurativo, della poupée di Bellmer).

È perciò da salutare con interesse la prima edizione italiana di I 21 giorni di un nevrastenico (Biblioteca del Vascello/Robin Edizioni, pp. 296, € 19,50), curata da Ida Merello e garbatamente tradotta da Albino Crovetto. Uscito originariamente nel 1901 per i tipi di Fasquelle, il libro – definito nel risvolto di copertina «una parata teratologica beffarda, sarcastica, dolente e visionaria sulla condizione umana» – si caratterizza per la sua «struttura narrativa a spirale o a imbuto con tonalità via via sempre più cupe fino allo spiraglio finale».
Nonostante non raggiunga il vertice che coniuga compostezza classica alle tematiche radicali presenti in alcuni dei suoi libri capitali, la raccolta di racconti, ambientata in una località termale dei Pirenei, presenta un sottofondo di cruauté modellato su vessazioni e ingiustizie in un’epoca per certi aspetti affine alla nostra.

«Repertorio di crudeltà assortite narrate da tante Sheherazade nevrotiche», il libro di questo inflessibile fustigatore di costumi costituisce una summa delle depravazioni piccolo-borghesi, in cui il ghigno sarcastico dell’autore si distende sopra resoconti paradossali che conservano l’esemplarità di un apologo. La struttura può essere considerata alla stregua di un romanzo sui generis, come ben rileva Ida Merello nell’introduzione: «In realtà il romanzo non è un diario, ma il collage di cinquantacinque racconti di argomento diverso, già pubblicati su giornali e riviste tra il 1887 e il 1901, introdotti come cornice da uno di quegli stessi racconti che descrive appunto l’arrivo in una cittadina di cura. (…) Alla base dei 21 giorni bisogna immaginare un’intenzione unitaria nella sua apparente dispersione, oltre che il tentativo di una sperimentazione in campo narrativo».

Ma se, alla luce del fatto che i ventuno giorni sono il periodo minimo di una cura termale e che i protagonisti dei racconti risultano quanto mai verosimili nella loro esibita inverosimiglianza, permane il dubbio che non si tratti di un libro completamente risolto, con alcuni deliziosi cammei che si impongono su altri, appiattiti intorno alla ricerca dell’effetto a tutti i costi.
Si passa così in rassegna un’umanità fideistica e dolente, sfacciata e truculenta, dedita ai vizi più innominabili e agli omicidi più efferati, come nel racconto in cui si descrive la scoperta del cadavere di una ragazzina nel padiglione concesso da un ignaro locatore a un omino particolarmente distinto e la conseguente maniera di disfarsi di quel corpo che pregiudicherebbe l’onorabilità di un innocente. Oppure di quel capitano di dogana che, in un paesino della Bretagna, decide di dedicarsi, dopo la pensione, anima e corpo alla sua passione: la coltivazione delle chiocciole di mare. Avendo notato che tali molluschi proliferano a contatto con le carcasse degli annegati, si adopera per allestire dei vivai dove possano essere alimentati con carne da macello, creando un sito intollerabile che appesta anche i dintorni. Finché viene trovato sopra «una piramide di carogne livide, da cui il pus scorreva in filamenti vischiosi», il volto «completamente divorato dalle lumachine».

Stridenti arabeschi
Non è un caso che Pierre Michel abbia raccolto in volume tutti gli articoli giornalistici, da cui sono tratti tali exempla, sotto il titolo Racconti crudeli, suddividendoli in categorie: per natura, situazione, società, abbrutimento lavorativo e rapporto masochistico con la donna (si pensi anche alle scene di feticismo, in Le Journal d’une femme de chambre, riguardanti gli stivaletti della cameriera). Inoltre i racconti vengono spesso presentati in sequenza, narrati come un campionario di assurdità durante una riunione conviviale tra amici.
Ida Merello precisa trattarsi «di una cena di ricchi, che mangiano e bevono a sazietà mentre raccontano le loro vicende strappalacrime sui poveri». I nomi stessi dei protagonisti sono quanto mai sintomatici, palesandosi come maschere di una moderna commedia dell’arte, a cominciare da Clara Fistule: «Clara Fistule non è una donna, come potreste credere dal nome. E non è nemmeno del tutto un uomo; è qualcuno allo stato intermedio fra l’uomo e Dio; un infrauomo, potrebbe chiamarlo Nietzsche. Ma è più di un poeta, è scultore, musicista, filosofo, pittore, architetto: egli è tutto…». Si prosegue con la marchesa de Parabole, il dottor Triceps, il dottor Fardeau-Fardat, il dottor Trépan, Jean Loqueteux, Jean Guenille, M. Tarte, Tarabustin e così via.

Avverte ancora la curatrice che «non dobbiamo aspettarci altro nel romanzo che la rappresentazione della crudeltà in tutte le sue forme, dal ghigno grottesco all’assurdità insostenibile del potere cieco, come una successione di stridenti arabeschi sostenuti sulla nota tenuta dell’eroismo borghese, ottuso nel suo benessere». Nel finale le montagne sullo sfondo sono «implacabili muraglie di roccia e di scisto» che sembrano prefigurare certe descrizioni del Bernhard paranoico del Gelo, divenendo simbolo stesso di oppressione e asservimento.