In Cattive Ragazze, libro di culto per i movimenti femministi degli anni Novanta, Karen Finley, performance artist e poetessa statunitense molto influenzata dalla scena Beat, denuncia il mito che si formò attorno al successo del romanzo Sulla strada di Jack Kerouac come un’ipocrita costruzione ad esclusivo uso e consumo degli uomini. «Non c’è nessun Sulla strada per noi!», afferma Finley, raccontando di aver ricevuto un passaggio da un uomo ed essere stata da lui molestata sotto la minaccia di una pistola spianata.
Oltre alla concretezza del pericolo, è in effetti quasi impossibile ripensare il libro di Kerouac attraverso una prospettiva puramente femminile e, più in generale, l’immaginario tutto statunitense del viaggio di formazione, sempre condotto in automobile sulle strade apparentemente senza fine del continente nordamericano, è da sempre popolato quasi esclusivamente da figure maschili. Poche le eccezioni; tra queste, l’opera on the road al femminile per eccellenza: Thelma e Louise, discusso film di Ridley Scott che, nel finale amaro, sembra sostanzialmente confermare l’affermazione di Finley circa l’esclusione delle donne da quello che è senza dubbio uno dei più fertili miti letterari e cinematografici d’America.

Sara Taylor, autrice appena trentenne, si cimenta con questo genere nel suo romanzo più recente, Il contrario della nostalgia (traduzione di Assunta Martinese, Minimum Fax, pp. 295, euro 18,00). Già con il suo esordio, lo splendido Tutto il nostro sangue, Taylor aveva mostrato un’attitudine iconoclasta e revisionista nei confronti di quell’altro filone troppo spesso declinato esclusivamente al maschile che è il romanzo «genealogico» tipico del Sud (pensate a William Faulkner o a Thomas Wolfe), volgendolo in un’epica eminentemente femminile.

La sperimentazione sul genere (letterario e identitario) prosegue in questo secondo lavoro, la storia del road trip di Alex, che per tutta la durata del romanzo si rifiuterà di rivelare il proprio genere affermando: «fin da quando riesco a ricordare, ho sempre dovuto combattere contro l’umana compulsione a classificare tutto, che contrastava con quello che sentivo io, ossia di non ricadere in nessuna delle categorie disponibili» – una sfida notevole per la traduzione encomiabile di Martinese.

Insieme a questo personaggio fluido, una madre altrettanto inafferrabile, che abbandona il marito nel cuore della notte e percorre il continente in lungo e in largo alla ricerca delle donne che ha amato durante una giovinezza burrascosa, e che, per uno scherzo del destino o per artificio retorico, si chiamano tutte Laura. Alla riflessione sulla violenza silenziosa ma non per questo meno opprimente delle strutture sociali si accompagna (in obbedienza alla tradizione letteraria del Sud) un’ampia riflessione sulla memoria e sul passato che, come insegna Faulkner, non è mai morto né davvero passato. Taylor mette in scena un complesso caleidoscopio fatto di tempo, identità e radici, intersecando il tema attuale del genere con l’eterna questione delle origini migranti dell’America contemporanea (la madre di Alex è infatti una «lurida italiana» nata in Sicilia).

Per quanto duro, il romanzo mostra tuttavia una innegabile dolcezza nel ritrarre le vite imprevedibili e indisciplinate dei suoi personaggi, un campionario di amabili disadattati che hanno fatto dell’indipendenza il valore supremo, e che impongono al lettore di rinegoziare le proprie convinzioni su cosa sia la norma e cosa invece la devianza. È un inno agrodolce allo sradicamento come condizione esistenziale magari dolorosa, ma necessaria a una radicale apertura al mondo che è prerogativa dell’assoluta libertà.