«C’è chi sostiene ci sia sempre un sogno rivelatore nella vita di ciascuno di noi, un sogno del quale però nessuno comprende la lingua e di cui nessuno riesce mai a decifrare il messaggio»: è con questa dichiarazione perturbante, contenuta nella presentazione della piccola antologia I poeti del sogno (Inschibboleth, pp. 120, euro 12), che lo stesso autore, Antonio Fiori, ci introduce sulla scena di una composita narrazione poetica, la quale via via si dipana attraverso le voci di dodici poeti, uomini e donne, che in comune hanno solo l’aver condiviso il medesimo sogno, in cui «con poche varianti, sono interrogati senza comprendere la domanda o l’evento annunciato».

INIZIA COSÌ per chi legge un viaggio altrettanto enigmatico, in un susseguirsi di incontri con personaggi che hanno abitato epoche e luoghi diversissimi tra loro, le cui biobibliografie sono minuziosamente ricostruite al punto da comporre una sorta di antologia parallela, quasi un’opera nell’opera, dal sapore storiografico e al contempo immaginifico. Sono autrici e autori che dalla Roma augustea, passando per la Spagna del Cinquecento, la Francia di Luigi XIV, il mondo sotterraneo delle catacombe della Napoli settecentesca, per la Russia e gli Stati Uniti dell’Ottocento, arrivano fin dentro al nostro tempo e da Parigi, Dublino e poi dall’Italia ci consegnano i versi più significativi della propria produzione poetica, componendo un mosaico in cui vita e poesia si intrecciano fittamente.

È però leggendo la postfazione di Donato Angeli che si rovescia il senso di quanto fino a poco prima sembrava più vero del vero, come succede al risveglio, dopo una notte di sogni vividi.
L’originalità e la potenza del libro risiedono proprio in questa operazione creativa, che Antonio Fiori ha congegnato nei minimi dettagli: rendere così verosimili le vicende biografiche narrate, così autentici i versi di ogni poeta, calati alla perfezione nel contesto storico, culturale, geografico, linguistico, ma anche e soprattutto psicologico ed emotivo da cui hanno avuto origine, che quando nel finale viene svelata l’inesistenza di queste personalità, frutto dunque di una finzione sapiente, risulta difficile convincersene.

DAVVERO non è mai esistita la bresciana Silvestra Bonetti, che negli anni Trenta del Novecento scrive, dall’asfittica domesticità in cui si muove, un testo sul complicato rapporto che ha imbastito con la prole (Sono una madre insana/ che vuol restituire le figlie/ – dar loro una madre più amabile/ o almeno più ligia al decoro)? E che dire poi di Aldo Domenico Coviello che in un colorito napoletano firma «Imprecazioni a Nigella» (Te puozze nnammurà de no crodele/ Che te faccia ‘nnaterno sospirare)? «Qualcosa di noi rimarrà, in forma diversa», scrive Marianna Concordia nella sua poesia intitolata «Senza corpo», composta nella Bologna del 1973. E possiamo forse darle torto? Anche Fernando Pessoa, che, alla stregua di Antonio Fiori in questo lavoro, ha largamente sperimentato l’altra verità degli eteronomi, ci suggerisce: «Siamo i sogni di noi stessi, barlumi di anime,/ e l’un per l’altro resta il sogno dell’altrui sogno».