Circa millecinquecento anni fa, a Costantinopoli, le due fazioni di tifosi di corse dei cavalli, gli Azzurri e i Verdi, si coalizzarono contro la politica repressiva dell’imperatore Giustiniano. La rivolta che ne seguì fu una delle più violente dell’antichità. Solo la risolutezza dell’imperatrice Teodora e la brutale repressione del generale Belisario riuscirono a venirne a capo. Quello che sta succedendo in Brasile e, in parte, le manifestazioni in Turchia, che hanno visto la partecipazione attiva dei tifosi di calcio, ricordano irresistibilmente gli antichi avvenimenti dell’Ippodromo di Costantinopoli.
Ogni potere, da che mondo è mondo, utilizza i pubblici spettacoli per legittimare il proprio potere e distrarre la popolazione. Ma la formula del pane e del circo è sempre a doppio taglio.

La dimensione pubblica che nessuna rete virtuale permetterà mai, il puro divertimento dello stare assieme, l’eccitazione per un risultato sportivo, il folclore di canti, balli e slogan diventano facilmente veicoli di protesta sociale, un fuoco che brucia istantaneamente e che consuma l’apparente consenso dei regimi politici. Ma c’è di più: da sempre le tifoserie, organizzate e non, si considerano padrone dello spettacolo a cui stanno assistendo, sia perché la loro passione sorregge le squadre, sia perché rappresentano l’enormità di appassionati che pagano per lo spettacolo, anche se non vi assistono direttamente. Ed ecco allora che il calcio, da apparente oppio dei popoli, si muta drammaticamente in occasione di protesta.

Il messaggio che i brasiliani per le strade inviano al loro governo, apparentemente popolare, è semplicemente questo: non vogliamo pagare per lo spettacolo. In un certo senso, le manifestazioni di questi giorni denunciano i primi scricchiolii del sistema Brasile, le condizioni sempre disastrate delle periferie e delle favelas, i contraccolpi di una situazione economica che non è più quella trionfale di qualche tempo fa. E forse anche la paura che le spese faraoniche per il campionato del mondo del 2014 si traducano in una crisi irreversibile come in Grecia, dove i debiti contratti per le Olimpiadi sono una delle ragioni della catastrofe economica. E forse, nelle manifestazioni di questi giorni, si coglie una prima protesta contro le organizzazioni internazionali, in primo luogo sportive, che dominano il mondo, ma lasciano che, dopo gli eventi trionfali, i problemi dei singoli paesi continuino a marcire.

In questo senso, la dichiarazione di Blatter («Il calcio prima di tutto») non è solo sciocca e arrogante. Rivela la vacuità di questi padroni del divertimento globale, che invitano a mangiare le brioches rimandando la questione del pane a un futuro problematico. E nello stesso senso vanno le dichiarazioni contro i manifestanti di Pelé, un ex campione che da cinquant’anni sostiene qualsiasi potere, purché istituzionale. Così come la solidarietà di Neymar rappresenta l’attenzione per la società dei campioni milionari, magari sinceri, ma attenti al marketing di se stessi, consapevoli che l’idolatria di oggi può diventare l’ostilità di domani. Si direbbe che il mondo professionistico del pallone, così apparentemente estraneo alla vita reale cominci a mostrare delle crepe. Penso in particolare alla disponibilità di alcuni giocatori a diventare testimonial contro il razzismo (e, speriamo, per i diritti dei migranti). Ed è sintomatico che le proteste siano scoppiate in un paese, il Brasile, in cui il calcio è una religione più che in qualsiasi altro. Ma questi non sono che gli aspetti imprevedibili della globalizzazione. Lo spettacolo globale del pallone può facilmente diventare l’occasione per una contestazione dei padroni materiali e simbolici del mondo.