Ha addosso una giacca cerata gialla e, piegato sulle ginocchia con le cuffie alle orecchie, ascolta e guarda il mare. Ma lo registra pure visto che vicino a lui c’è, piantato nella sabbia, un grande microfono.

Bernie Krause gli ultimi quaranta anni li ha passati così: sul delta dello Yukon in Alaska, nella foresta amazzonica, nei parchi naturali di Canada e Stati Uniti, a Dzanga-Sangha – parco nazionale della Repubblica Centroafricana – o immergendo microfoni (idrofoni) nelle acque della barriera corallina per capire che suono avesse un anemone di mare.

FU SUL SET di Apocalipse Now che Krause, forse anche per il trauma collettivo causato dalla lavorazione del film, decise di passare da Hollywood al suono puro della natura, quello che senti solo «uscendo la mattina prestissimo, quando ancora nessun segno sonoro umano si è manifestato.
È in quel momento che qualunque piccola rana, filo d’erba, picchio o roditore ha lo spazio per farsi vivo».

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Dal 1970 BK registra quella che lui stesso definisce «la narrativa dei luoghi»: circa 3700 diversi tipi di habitat sonoro e più di 5000 ore di registrazione, paesaggi sonori selvaggi la metà dei quali non esiste più. Surriscaldamento globale, inquinamento acustico, estrazione di risorse naturali e il rumore degli umani sono fattori che incidono sul loro progressivo impoverimento.

DI QUESTO E ALTRO si parla a Parigi in The Great Animal Orchestra (Fondation Cartier pour l’art contemporain, fino all’8 gennaio 2017): partendo proprio dall’archivio sonoro di Krause si compie un viaggio che dal plancton arriva agli spostamenti delle mute di lupi e ai percorsi misteriosi del giaguaro nella foresta: un invito a meditare sulla complessa e fragile estetica, visiva e sonora, del regno animale.
L’analisi dei suoni e la simultanea visualizzazione degli spettrogrammi, affidata al collettivo inglese Uva, avviene in una grande stanza buia nella quale ci si stende a terra appoggiandosi a cuscini. E lì tutti insieme – bambini, adolescenti e adulti – ci si lascia ipnotizzare da quella specie di elettrocardiogramma gigante che fluttua e scorre sulle pareti.

TALE È IL POTERE evocativo del suono che, in un istante, ci si sente buttati in mezzo alla foresta amazzonica col giaguaro che cammina alle nostre spalle oppure nello Gonarezhou National Park in Zimbabwe dove gli elefanti si stanno spostando da una parte all’altra del fiume. E appunto nella grande orchestra ogni suono animale trova una sua collocazione: nella fascia alta insetti e pipistrelli e, poi man mano scendendo verso la fascia mediana, le varietà di uccelli fino al basso, con i mammiferi.

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Ryuichi Sakamoto e Shiro Takatani nella sala a fianco hanno creato Plankton, A Drifting World at the Origin of Life: un giardino, un terreno sul quale camminare cosparso di lightbox al cui interno le immagini – gli organismi del plankton – si sgretolano e colano riaccumulandosi infine sul fondo. Sakamoto dice di avere creato un’armonia partendo da suoni acquatici o da rumori indefiniti (di strada a New York dove vive o acqua che scorre sotto la doccia) e, come Krause, ci parla dell’immensa arroganza della civiltà umana e del suo violento tentativo di annientare la natura e i suoi «concerti».
Tanti paesaggi sonori non esistono più: secondo Krause il suono dell’uomo sta diventando assordante. Come per esempio quando a Yosemite i piloti dell’aviazione americana passano a 1100 km/h con voli radenti sulla superficie del Lago Mono e i rospi Spadefoot si zittiscono tutti insieme.

CI SONO POI GLI ANIMALI feriti e la registrazione del pianto di un castoro: uno strano e triste suono di lamento registrato da Krause dopo che una diga era saltata in aria uccidendo così varie famiglie di castori. Il superstite, continuava a girare ossessivamente in cerchio emettendo il suo gemito senza posa.