Di fronte a problemi enormi come il cambiamento climatico e la crisi ecologica ci sentiamo spesso impotenti. Il nostro contributo ci appare piccolo e insignificante come la famosa goccia d’acqua trasportata dal colibrì per spegnere l’incendio nella favola africana, e l’idea di «aver fatto la nostra parte» è una consolazione troppo magra di fronte al progredire della crisi. Eppure, le nostre azioni sembrerebbero avere un impatto molto più ampio di quello che immaginiamo, grazie agli «effetti farfalla». Così come il battito d’ali di una farfalla può causare un uragano dall’altra parte del mondo, le nostre scelte quotidiane su come ci alimentiamo, ci spostiamo, spendiamo i nostri soldi, possono determinare effetti a catena positivi dirompenti, e contribuire a costruire un mondo più equo, sostenibile e felice. A proporre questa controintuitiva teoria è Grammenos Mastrojeni, diplomatico, professore universitario e saggista, autore del recente Effetti farfalla, edito da Chiarelettere. Lo abbiamo contattato in vista della sua partecipazione al Festival della virtù civica di Casale Monferrato, e a poche settimane dalla fine della COP26 di Glasgow a cui ha partecipato come diplomatico.

La Cop26 ha mostrato i limiti degli stati nel fronteggiare la crisi climatica. Se gli stati riescono a fare qualcosa, cosa potremo mai fare noi come cittadini?

Il problema della Cop26 è stato che ha avuto la tempistica sfortunata. Il mondo è molto più avanti di quanto emerge dall’accordo finale. Ci sono almeno tre fattori di novità che l’accordo di Glasgow non contempla, ma che in qualche modo erano presenti ai negoziati. Il primo è una società civile più informata e matura, che ha abbandonato il suo ruolo, sterile, di critica fine a se stessa per porsi in termini più collaborativi. Il secondo è il passaggio da un negoziato su interessi contrapposti a uno su interesse condiviso, in cui per la prima volta non ci si divide più sull’urgenza, o persino l’esistenza, del problema climatico, ma su come affrontarlo. La terza è che se fino ad ora si è pensato che la crisi climatica si risolvesse solo a patto di far pagare un prezzo all’economia, ora ci si è accorti che la transizione è una grandissima opportunità per l’economia, non solo per far ripartire un nuovo ciclo espansivo, ma soprattutto per favorire un’economia che è strutturalmente più equa e giusta.

Ha parlato di società civile più informata e partecipe. Nel suo ultimo libro racconta come questa partecipazione possa tramutarsi in impatto concreto sulla società, tramite degli «effetti farfalla». Ci spiega di cosa si tratta?

In genere ci riferiamo all’effetto farfalla, uno dei capisaldi della teoria del caos, per spiegare come una mutazione piccolissima nell’equilibrio iniziale di un sistema possa portare alla mutazione di tutto il sistema. Il famoso battito d’ali di farfalla che può causare un uragano dall’altra parte del mondo. Nel mio libro però uso questa teoria per spiegare un fenomeno leggermente diverso, ovvero che se agiamo in maniera coerente con gli ecosistemi gli effetti positivi delle nostre azioni vengono amplificati e hanno ricadute molto maggiori di quelle che potremmo aspettarci.

Sembra quasi magico…

Eppure è la scienza dei sistemi. Oggi iniziamo a conoscere sufficientemente bene il funzionamento dei sistemi complessi da poter scegliere di battere le ali nella direzione giusta e innescare come individui, gruppi, comunità, delle catene di conseguenze tutt’altro che irrilevanti.

Ci fa un esempio?

L’esempio più classico è quello del cibo. Prendiamo un’azione molto semplice come scegliere di mangiare meno carne, ma locale e di migliore qualità. Il primo effetto visibile lo avrò sulla mia salute, ovviamente. Starò meglio, sarò più sereno, persino più produttivo al lavoro. Essendo più sano, graverò di meno sul sistema sanitario nazionale, contribuendo a far abbassare le tasse – considera per inciso che se solo l’occidente ricco decidesse di mangiare in maniera corretta tutelando la propria salute, avremo una diminuzione delle tasse di circa un terzo. Inoltre smetterò di fornire risorse al sistema di produzione industriale del cibo, che distribuisce le calorie in maniera talmente polarizzata che circa due miliardi di persone soffrono di patologie da ipernutrizione e altrettante soffrono la fame. Una distribuzione più equa delle calorie sul pianeta porterà anche a meno attriti e conflitti sociali. E così via.

È tutto molto coerente. Un aggettivo che peraltro utilizza spesso nel libro.

Già. Spesso pensiamo che ci sia sempre un trade-off fra bisogni opposti, che uno si realizzi solo a scapito dell’altro. Ma il sistema in cui viviamo, e assieme al quale ci siamo co-evoluti, è intrinsecamente coerente e trova il suo equilibrio nel punto di massimo benessere per tutti. Se consideriamo i settori di ambiente, sviluppo, diritti umani e pace, scopriamo che quando facciamo qualcosa di buono in uno di questi settori, le conseguenze si trasmettono a cascata sugli altri, autoamplificandosi.

Tutto molto bello, ma viviamo in un sistema che fa esattamente l’opposto. Che interesse ha un’economia dominata da poche grandi aziende, che fatturano quanto il pil di interi paesi, a cambiare?

Ti sorprenderà, ma le grandi aziende e la finanza sanno benissimo che questa economia non ha futuro. Nel 2008 il centro di ricerca del Tesoro americano pubblicò un rapporto sul cosiddetto collo di bottiglia, in cui si affermava che con il modello attuale la crescita non è più possibile perché si è creata una polarizzazione fra ricchi e poveri. Se la manodopera è disoccupata o è sfruttata a causa di varie forme di automazione, che vanno dalla sostituzione degli esseri umani con le macchine o dal fatto che gli esseri umani sono ridotti al ruolo di macchine, pagati pochissimo, e inseriti in catene di montaggio svilenti, dopo un certo periodo di tempo non c’è più sul mercato chi può comprare i prodotti. Perciò questo momento storico, che potrebbe sembrare straordinario a quell’1% di persone che possiede la metà delle ricchezze mondiali, in realtà cova i germi del loro stesso fallimento. Perché si è coltivato un sistema economico che distrugge la domanda. Quindi nessuno ha un reale interesse a proseguire in questa direzione.

Come facciamo a sapere che l’economia verde non riprodurrà le stesse ingiustizie?

Ti faccio un esempio: se sono un’azienda che fa prefabbricati in un’economia globalizzata, forse non ho bisogno di manodopera. Mi basta qualcuno che mi porti le materie prime all’inizio della linea di produzione, dopodiché mi bastano delle macchine, che siano meccaniche, o esseri umani ridotti a macchine, e alla fine otterrò il prefabbricato. Se invece io devo fare il prefabbricato in maniera ecologica, non funziona così. Perché non esiste il «verde» in assoluto. Piuttosto, esiste il «verde» relazionato alla realtà di un territorio specifico. Il prefabbricato è più o meno ecologico a seconda dell’insolazione, della pendenza, della piovosità. Significa che bisogna mettere su un sistema economico che reinterpreta un territorio, e questo nessuna produzione di massa lo può fare. In una filiera realmente sostenibile hai bisogno del sapere, che deve essere remunerato. Questo genera redistribuzione del reddito, e di conseguenza impulso sulla domanda.

Così però ripartono i consumi sfrenati, e quindi, di nuovo, l’utilizzo di risorse non rinnovabili.

L’economia verde produce una domanda diversa, basata più sulla qualità e meno sulla quantità. Il pil alla fine cresce lo stesso, ma a farlo crescere sono fattori diversi. Invece di comprarmi decine di maglioni prodotti in serie, ne compro uno buono, che è più costoso ma dura di più, e con i soldi che comunque risparmio posso investire nel mio benessere, ad esempio pagando per un massaggio, o in quello collettivo, garantendo alla società, con le mie tasse, una serie di cure dignitose per gli anziani, o per i malati. Il prototipo di tutto questo modello esiste già, sono le democrazie nordiche.

Chi è il traino di questo cambiamento del paradigma economico?

I governi, pur facendo un sacco di errori, sono stati i primi a mettersi in moto. Le imprese e la finanza, che non sono diventate buone ma si sono accorte che sostenibile conviene, stanno facendo da traino. Chi manca all’appello? Proprio noi, i cittadini. Siamo restii a cambiare i nostri comportamenti, assestati su delle comodità storiche da cui facciamo fatica a staccarci. Continuiamo a pensare che il marketing induca i bisogni, ma la verità è che il mercato non produce quello che noi non compriamo. E’ la domanda che determina l’offerta, in fin dei conti. Abbiamo un potenziale di cambiamento enorme. Aiutati dagli effetti farfalla, possiamo davvero cambiare il mondo.