Robert Todd è stato trovato morto lo scorso sabato nel Jamaica Plain Park della sua Boston, era scomparso da qualche giorno e avvistato l’ultima volta proprio nel parco prima che la famiglia avvisasse la polizia. Filmmaker quantomai affascinante e complesso del cinema underground statunitense, aveva 54 anni, e da diciotto insegnava Visual&Media nella School of the Arts dell’Emerson College. Era un regista dal linguaggio personalissimo percorso da provocazioni liriche e poetiche, spesso mediate da una continua sperimentazione strutturale e formale.

Uno dei molti autori che ancora oggi si interrogava sulle nostre possibilità di vedere, sulla sensibilità degli elementi da cogliere in una realtà sempre più chiassosa e distante, sul movimento interno delle cose. Uno dei molti etichettati come «sperimentali» e dunque ignorati nel loro percorso.
In Europa i suoi lavori erano stati presentati al festival di Rotterdam, uno dei pochi in cui ancora è possibile incontrare molti di questi personaggi che scavalcano l’oceano per presentare i loro lavori nel vecchio continente (come è stato per Stan Brakhage, Michael Snow, Paul Sharits e molti altri padri dell’avanguardia).

In Italia alcuni lo conobbero nell’autunno di due anni fa per un omaggio a lui dedicato (da Mauro Santini, Gianmarco Torri e Tommaso Isabella) tra Pesaro e Milano. Dopo aver mostrato molti dei suoi lavori, Todd aveva spiegato la propria pratica filmica, accompagnato dall’inseparabile Bolex 16 millimetri, in un workshop strutturato come una specie di caccia al tesoro delle immagini («Il vero tesoro emana da sé la propria luce: un film è nato. Io spero» diceva).

Emerge così l’autore solitario di visioni collettive all’interno di quello che spesso definiscono «cinema of poetry», erede tra gli altri di un gigante misterioso come Nathaniel Dorsky; un uomo che trovava nel suo esercizio di filmare un respiro più ampio del risultato stesso del proprio lavoro. Come se quel tesoro, sopra citato, fosse l’esperienza intima della ricerca di una bellezza ormai celata al nostro sguardo.
Anche per questo la sua è una filmografia piena di sorprese, tra mediometraggi di personalissima documentazione sociale (come In Loving Memory e Master Plan) e una sterminata produzione di cortometraggi visionari e immediati più o meno ispirati (l’ultimo dei quali, Life in the Shadows, caricato proprio la scorsa settimana sulla sua pagina Vimeo consultabile pubblicamente) che paiono delineare una non comune gentilezza e semplicità nel confrontarsi con il reale per ricercare quella fessura in cui poter ritrovare il frammento del senso di una percezione materica.

Perché fondamentalmente la ricerca di Robert Todd era legata alla luce, a come essa potesse inondare gli elementi circostanti e illuminare il nostro occhio. Una ricerca sostanzialmente infinita che solo ora si scontra con la finitezza della vita e che potrebbe proseguire forse in qualche realtà parallela e misteriosa, distante dal nostro caos e dalla nostra superficialità, dal buio dei nostri tempi.

Ecco che la sua scomparsa può esser per noi un invito a tornare sulle tracce di quel lavoro e allo stesso tempo d’interrogarci su altre possibilità di guardare un cinema che osserva l’universo, dalla più piccola goccia d’acqua agli astri che ci sovrastano. Come Todd molti altri autori, spesso ancora più interessanti e sconosciuti, vorrebbero richiamare il nostro occhio e la nostra anima per condividere un percorso, una pratica, un esperienza. Anche per rispetto della sua opera, questo dovrebbe esser il nostro ruolo di spettatori critici e attivi, aperti alla visione e alle pulsioni di ciò che ci circonda.