Già pubblicato da Contrasto nel 2006, torna nelle librerie Carver Country Il mondo di Raymond Carver, con testi di Carver, fotografie (superbe) di Bob Adelman, e una lunga postfazione di Tess Gallagher. A riproporre il volume è Einaudi (pp. 200, euro  26,00), nell’ambito di un progetto che prevede la ripubblicazione di tutte le opere narrative e che ha avuto inizio con Principianti, la raccolta che includeva le versioni originali dei racconti di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, precedenti all’editing «distruttivo» di Gordon Lish.

Le opere di Carver, incluse le poesie – che, come è evidente anche in Carver Country, rappresentano un elemento complementare e non meno rilevante del suo immaginario e della sua produzione letteraria –, erano peraltro già state raccolte in modo sistematico da minimum fax, che ha dato un contributo assolutamente decisivo alla fama ormai solidissima dell’autore in Italia. Altro tassello importante è stato certamente rappresentato dalla pubblicazione della dettagliatissima biografia di Carol Sklenicka (Raymond Carver: una vita da scrittore), uscita lo scorso anno per Nutrimenti; e un ulteriore, prezioso step potrebbe consistere nella pubblicazione delle interviste a Carver, raccolte in un ponderoso, splendido volume all’interno della Conversations Series della University of Mississippi Press, e indispensabili per approfondire il suo rapporto con la scrittura, con i modelli letterari, con i luoghi, le persone, le storie della sua vita.

Proprio l’esplorazione di luoghi, volti, oggetti, dettagli minimali che attraversano come tracce fantasmatiche l’opera di Carver rappresenta il focus fondamentale di questo Carver Country. Come rivelato con dovizia di dettagli nella postfazione di Tess Gallagher, ma anche nella lettera – qui riprodotta nelle prime pagine – spedita dallo scrittore a Bob Adelman, con un elenco puntuale di luoghi da visitare e fotografare, il progetto del libro nasceva dall’esigenza di instaurare un fertile dialogo tra testo e immagini, facendo sì che le immagini, dotate di una propria forza autonoma, non si limitassero a tratteggiare una sorta di biografia fotografica di Carver, ma entrassero in un rapporto di interazione magica con i suoi racconti e le sue poesie, ripubblicati integralmente o attraverso estratti mirati. Partendo da Yakima, nello Stato di Washington, dove la famiglia Carver si trasferì dal vicino Oregon quando Ray aveva solo tre anni, passando dai bar alle sale da ballo, dalle auto sfasciate alle segherie, e spostandosi quindi in California, nei luoghi in cui Ray, liberatosi dall’alcolismo, trascorse i suoi ultimi anni con la serenità del naufrago approdato sulla terraferma, Adelman costruisce un mosaico di volti e luoghi dalla straordinaria potenza iconica, rivelando in ciascuno di essi, come puntualmente notato da Gallagher, «un amalgama di sentimenti e realtà psichiche che naturalmente esistevano in America anche prima che Ray cominciasse a descriverle», e che pure, proprio attraverso la sua scrittura, acquistano una credibilità e un’esemplarità tutte nuove.

Esistono due possibili strade per avvicinarsi a questo libro, a seconda che si sia dentro o fuori l’opera di Carver: iniziati che hanno imparato ad amarne lo stile inconfondibile, il clima di minaccia e la straziata umanità che popola ogni suo racconto o poesia; oppure neofiti che dai frammenti raccolti e giustapposti alle immagini intendano ricavare un primo quadro di una produzione letteraria la cui influenza e il cui impatto sono pressoché impossibili da sottovalutare.
Nella prima parte del libro, subito dopo la lettera già richiamata di Carver a Adelman e un paio di frammenti tratti da Vita di mio padre – un testo a mezzavia tra racconto, biografia e saggio, che rimane tra i più toccanti e potenti della sua intera opera –, trova spazio un lungo estratto da un’intervista rilasciata nel 1983 alla «Paris Review», nel quale Carver, dopo aver esordito con un lapidario «La narrativa che a me personalmente interessa di più è quella che ha senz’altro punti di riferimento nel mondo reale», elenca gli autori cui si sente più legato, da Tolstoj a Cechov, passando per Hemingway, Richard Ford, Anne Beattie, John Cheever, sottolineando come ciascuna delle loro opere gli dia «l’impressione di essere in qualche modo autobiografica», o per lo meno ricca di rimandi. Naturalmente, aggiunge, «si deve essere bravi nel proprio mestiere quando si trasformano le storie della propria vita in narrativa. Bisogna essere molto audaci, avere grandi capacità immaginative ed essere disposti a dire qualsiasi cosa su se stessi. Ai giovani si raccomanda sempre di scrivere di cose che si conoscono bene, e che cosa si conosce meglio dei propri segreti?».

Nelle parole qui riportate, Carver aggiunge un ulteriore elemento, decisivo, alla massima hemingwayana per cui si deve scrivere solo di ciò che si conosce. In una sorta di inversione o forse integrazione del voyeurismo di cui spesso vengono tacciati gli scrittori, qui l’artista, anziché mettere a nudo gli altri, applica a se stesso il proprio scandaglio. Si mette in scena senza vergogne, racconta i propri segreti più inconfessabili, dice di se stesso qualunque cosa, anche la più sgradevole. Attinge al proprio bagaglio più infimo e degradato confidando nel suo mestiere e nelle sue capacità immaginative perché questa messinscena spietata, ben lungi dall’esaurirsi nell’autobiografismo, raggiunga un livello di esemplarità e di umana penetrazione tale da trasformarsi in archetipo, amalgama di realtà psichiche, faro su un’America che in fondo c’è sempre stata, e che pure sembra esistere per la prima volta, o per la prima volta farsi credibile.

È questo, in estrema sintesi, il mistero di Carver. E leggere i suoi testi accanto alle immagini dei luoghi e delle persone che li hanno ispirati consente di cogliere tanto la loro profonda aderenza al paesaggio quanto la prodigiosa penetrazione che li fa essere anche e soprattutto altro. E consente altresì di sottrarre almeno in parte l’autore all’annosa e ormai stucchevole querelle sul suo rapporto con Gordon Lish e sul ruolo del suo prodigioso e invadente editor nella costruzione della sua fama. Accostamenti straordinari come quelli tra la foto del Bachelor Creek e l’estratto dal superbo racconto di pesca «Nessuno diceva niente», tra gli esterni e interni di bar e la deriva alcolica di «Vuoi star zitta per favore?», tra i ritratti duri e disperati di Raymond e Maryann, sua prima moglie, e il dramma coniugale della poesia «Miracolo», o tra le due foto di Jerry Carriveau, il cieco che avrebbe ispirato il protagonista di «Cattedrale», e la sua superba descrizione nel racconto, lasciano emergere l’anima profonda di un autore che ha dedicato una vita intera a descrivere se stesso, i luoghi che ha ora eletto, ora subìto, e le persone, straordinarie nella loro assoluta ordinarietà, che li popolavano.

Prima e oltre ogni editing, Carver ha saputo perseguire e realizzare uno stupefacente punto di equilibrio tra vissuto ed epifania, autobiografia ed exemplum. Che si tratti di volti segnati e intensi, di luoghi degradati, attraversati da un senso costante di provvisorietà, o dei punti dove, per citare una delle sue più belle poesie, «l’acqua con altra acqua si confonde», l’incontro tra testo e immagine si compone in un ritratto d’artista tra i più toccanti e intensi che si ricordino, facendo di questo libro un cadeau per appassionati che ha anche il profumo autonomo dell’opera d’arte.