Nel 2011, con il suo film La Khaoufa Baada Al’Yaoum (Mai più paura) – un documentario sullo scoppio della primavera araba girato a caldo nelle strade di Tunisi e nelle case di personaggi chiave della rivoluzione – Mourad Ben Cheikh ha partecipato a circa centoventi festival. Da Cannes a Dubai, da Buenos Aires a Goa, passando per Lisbona, Atene e Istanbul. Dopo un lungo soggiorno in Italia negli anni della sua formazione al Dams di Bologna e le prime esperienze lavorative in Rai, risiede oggi nel suo paese natale.

L’assalto al museo del Bardo – stando alle notizie disponibili finora – non sembra aver provocato danni alle opere esposte. Tuttavia, possiamo cogliere in questo atto lo stesso impeto di violenza che in Siria come in Iraq ha portato alla distruzione del patrimonio pre-islamico da parte dell’Isis?

Malgrado non siano ancora del tutto chiare le circostanze dell’attentato, è evidente che chi colpisce un museo è consapevole di ciò che rappresenta, delle idee e delle culture che veicola. Dall’epoca di Bourguiba l’identità cartaginese è stata accolta dalla politica e utilizzata per definire un’identità alternativa a quella puramente araba. Era un modo di opporsi allo svilimento in cui il panarabismo riduceva la nostra identità composita. Ancora oggi, l’ideologia islamista rinnega la ricchezza dell’identità tunisina. Attaccare un museo equivale dunque a voler cancellare quell’identità nella quale invece i tunisini si riconoscono e della quale fanno una bandiera. Il Bardo è un intreccio di significati, è il viaggio del nostro popolo nel tempo, è un luogo di conoscenza per gli stranieri che visitano la Tunisia. Colpire il turismo significa abbattere l’economia del paese ma anche ostacolare la politica, visto che il museo si trova accanto al parlamento. In questa sovrapposizione di simboli, nel mirino dei terroristi c’era soprattutto l’esperienza unica del «laboratorio della democrazia» che stiamo vivendo.

Ieri è toccato a un museo. Ma dal 2011 a oggi – seppur in modo diverso – in Tunisia sono stati attaccati cinema e altri luoghi di cultura e arte. Senza dimenticare l’incarcerazione di blogger, rapper e artisti di strada.

È una tendenza generale che pone una cultura contro l’altra. C’è un modo di essere tunisini e c’è un’ideologia a noi estranea, la quale – subito dopo la rivoluzione – ha cercato di radicarsi nel paese. In quel periodo, le rappresaglie contro gli artisti avevano l’obiettivo di dare una scossa all’opinione pubblica, convincendola della forza dell’identità islamica. Oggi quella spinta prevaricatrice permane ma il «ring» in cui si svolge la battaglia non è lo stesso. Nel post-rivoluzione un partito come Ennahda era solidale agli attacchi contro il cinema e gli artisti, oggi li disapprova.

C’è, invece, una parte del paese che «sostiene» il terrorismo?

In qualche angolo, in alcuni quartieri popolari delle periferie disagiate, sì. Ma il paese nel suo insieme, in tutte le sue espressioni politiche e attraverso il tessuto associativo, condanna questi atti. Dopo gli assassinii politici di Chokri Belaïd nel febbraio del 2013 e di Mohamed Brahmi a luglio dello stesso anno, le istituzioni sono andate verso una più larga unità governativa e hanno prestato maggiore attenzione al benessere di tutti i tunisini. Anche se bisogna ammettere che la troika (governo di transizione in carica dal 2012 al 2014, ndr) ha impiegato molto tempo a dare le dimissioni, la morte di Brahmi ha innescato quel meccanismo che ha portato Ennadha fuori dal potere. Sulla scia di quello che è successo ieri, credo che la legge sul terrorismo, la quale giace in parlamento da diversi mesi, passerà rapidamente.

Perché, nonostante la sicurezza avesse già mostrato le sue falle, non si è provveduto ad approvare tale legge in tempi più stretti?

Il vecchio parlamento (in carica fino al dicembre 2014, ndr) ha ritardato l’approvazione con il pretesto che la legge avrebbe smantellato anche il sistema di finanziamento alle associazioni di tipo religioso e caritativo nonché agli istituti stranieri. In ogni caso, pur ritenendo necessaria la legge, credo che il modo più efficace per combattere il terrorismo non sia l’utilizzo di elicotteri o kalashnikov. Bisogna sviluppare invece mezzi e capacità finalizzati a prosciugare le fonti di finanziamento. In fondo, è più semplice seguire il flusso del denaro che dare la caccia ai terroristi tra le montagne.

Rispetto al momento in cui hai girato il documentario sulla rivoluzione, la paura del futuro è stata definitivamente sconfitta o si è fatta nuovamente largo negli animi dei tunisini?

La differenza fondamentale è che ieri si aveva paura di qualcosa mentre oggi si ha piuttosto paura per qualcosa. Prima si temevano la dittatura, la polizia, il partito al potere. Oggi si hanno sentimenti di preoccupazione per il paese, la democrazia, le libertà. Se facciamo un confronto tra i paesi in cui c’è stata la cosiddetta primavera araba, la Tunisia è l’unico dove lo Stato continua a esistere e in cui i principi libertari che avevano guidato il popolo alla rivolta sono diventati realtà. La democrazia che stiamo costruendo non è ancora la democrazia «ideale» ma è una realtà. I risultati della rivoluzione sono davanti ai nostri occhi, li possiamo misurare. Dopo l’attentato subìto ieri e il duro colpo inferto all’economia, dobbiamo prepararci ad affrontare tempi difficili. Ma resto ottimista e sono certo che la democrazia sopravviverà.