L’incedere disordinatamente, con attitudine diaristica, in alcune storie di ragazzo può sembrare un’operazione da romanzo di formazione che usa l’ironia e le riflessioni per raccontare un mondo estinto. Ma quando le vicende narrate si sono sedimentate e contestualizzate nella Storia, le scelte, i sacrifici e le avventure possiedono uno spettro più ampio, capace di sviluppare in modo disinibito la mappa emotiva/umana di una precisa epoca. Massimo Zamboni con il suo ultimo libro, Nessuna voce dentro (Einaudi, pp. 208, euro 17), si prende una rivincita sulla Storia facendo affiorare la sua, quella di un provinciale scaraventato nell’81 a Berlino che, in un’intricata girandola di incontri, osserva un tempo perduto.

UN FLUSSO DI COSCIENZA in cui si entra poco a poco, che non sfocia mai nel sentimentalismo del rimpianto ma capace di tirare le somme, riprendendo in parte l’altro lavoro di Zamboni, Il mio primo dopoguerra (2005). «Difficile è stato mantenere un atteggiamento da ventiquattrenne bilanciandolo con la testa attuale». Nell’inciso iniziale si legge che la storia non è maestra ma nemmeno bidella: «C’era la città sbriciolata, il muro, i controlli, i fucili imbracciati. Noi emiliani venivamo da un confronto politico con la storia focalizzato sulla Resistenza, ma è differente camminare dove la vita degli uomini è stata trasformata da quel passato e riconoscerne la potenza infinita e anche maligna. Era necessario detronizzare la storia e rilanciare il fattore umano».

Il muro nel volume è un’ombra che attrae e ripugna, intriso della supponenza della narrativa occidentale che però l’autore riesce a scardinare con l’introspezione: «Per gli anziani berlinesi il muro è stato un oltraggio insostenibile e questo imponeva di avvicinarsi con la severità della consapevolezza. Chi invece andava sulle torrette di avvistamento per turismo guardando ad est lo faceva allo stesso modo di quando allo zoo compativa quel popolo di animali/umani. Il muro era un segno di infamia che rappresentava il marcio del mondo comunista, della dittatura e del dispotismo. Oggi, però, non stiamo tanto meglio. Questa situazione non è legata alla condizione del sistema socialista ma alla condizione umana in assoluto. Continuamente chiunque costruisce muri per poter vivere».

NEL LIBRO S’INTRAVEDONO gli arbori della società capitalista globalizzata, oggi Berlino è seducente ma anche l’ennesima astrazione contemporanea: «Mi colpisce che viviamo in quella sfera che i CCCP hanno chiamato ’produci, consuma, crepa’, e Berlino non è esente. Un posto simbolico come Postdamer Platz è un luogo per lo shopping. La sofferenza e la divisione sono state compensate dalla merce». Zamboni con Angela Baraldi e Cristiano Roversi porterà nei teatri uno spettacolo musicale ispirato al libro