Ha rischiato due volte di non «vedere la luce» il film di Mike Leigh dedicato al pittore dei cieli incendiati e delle tempeste vaporose, il paesaggista inglese Joseph Mallord William Turner.
La prima è stata quando il budget limitato non ha permesso di girare a Venezia alcune scene. «Io e il direttore della fotografia Dick Pope avevamo già fatto i sopralluoghi, ma chiudere interi quartieri per ricreare la città degli inizi dell’Ottocento era fuori discussione, troppo costoso: d’altronde, anche se ti siedi a un bar di piazza san Marco come semplice turista spendi una quantità esagerata di soldi!», confessa con rammarico Leigh. Volevano rinunciare, ma poi, dato che «l’intento era mostrare l’essenza del processo creativo», sono andati avanti.

La seconda è stata quando la produzione era in attesa della liberatoria per la riproduzione su schermo delle opere dell’artista. In genere, i biopic sui grandi maestri non godono di buona sorte in questo campo, ma Leigh si ritiene un fortunato. «I quadri di Turner sono sparsi in molte gallerie del mondo, solo una ha risposto negativamente alla nostra richiesta. Se fosse accaduto il contrario, il film sarebbe stato a repentaglio».

Così, con la nostalgia della Laguna perduta e con quattro quadri autentici utilizzati nel corso delle riprese – quelli appesi alle pareti della dimora aristocratica di Lord Egremont, gli altri sono copie o realizzati direttamente sul set – il regista di Topsy Turvy e Il segreto di Vera Drake ha potuto coronare il suo sogno: raccontare la vita e l’opera del figlio del barbiere di Covent Garden, un uomo eccentrico, taciturno e un po’ rude che viene trasfigurato dalla sua arte e, soprattutto, da una passione smodata per la luce e le sue rifrazioni magiche. Una pratica, quella della pittura che lo assorbì ossessivamente e che per Leigh è una sorta di metalinguaggio per rappresentare il cinema nel suo farsi. Il vero Turner, infatti, girovagava per l’Europa portando con sé taccuini che riempiva di schizzi, non solo disegnando, ma abbozzando pensieri e dettagli «inutili», piccole cose quotidiane che riconsegnano il senso di una solitudine o «isolamento» creativo, come sottolinea filosoficamente nel film il magistrale interprete Timothy Spall («non ho mai pensato a nessun altro attore per quella parte», precisa il cineasta).

Turner, il biopic sul pittore inglese nato nel 1775 e morto nel 1851, sarà da domani nelle sale italiane (distribuisce Bim). Forte delle sue quattro nominations agli Oscar – escluso il protagonista, che invece incantò la giuria e il pubblico di Cannes – si concentra sugli ultimi venticinque anni della vita di un artista che inseguì vertiginosamente il «sublime» romantico, non dimenticando mai la lezione di «classici» come Claude Lorrain.

Posseduto dal colore – tanto da gettare in secondo piano qualsiasi affetto, figlie comprese, e accontentarsi di rapporti segreti e mai esclusivi (finirà la sua esistenza con una matura pensionante di Margate, località nella quale si recava con frequenza per cogliere le atmosfere cangianti del paesaggio marino), Turner scardinò le convenzioni dell’accademia e arrivò a un passo dall’astrattismo. Verrà in seguito osannato dagli Impressionisti, ma la critica del tempo non capì sempre la sua arte: ebbe sì successo, fu membro della Royal Academy, eppure venne considerato oltraggioso e al limite della follia. Dalla sua parte, si schierò un giovane Ruskin (nel film tratteggiato come un ragazzetto saccente e piuttosto pedante).

Il regista affronta il pittore nei suoi difetti e virtù, avendo a disposizione un canovaccio esistenziale molto scarno: Turner non brillò certo né per apparizioni mondane né per effetti speciali della sua biografia. Rimase a vivere con il padre factotum e, alla sua morte, fu prostrato da una depressione che non lo abbandonò più. Anche i suoi amori furono «avari». Leigh però sceglie di non «divagare», preferisce non aprire squarci sulla società inglese a lui contemporanea. «Ho scoperto Turner quando ero studente, negli anni ’60. Non è stato solo un pittore straordinario, ma anche un artista cinematico…».
«Ho deciso di fare un film su di lui quando ho studiato la sua personalità – continua Leigh – Mi affascinava il contrasto fra i suoi quadri e la complessità del suo carattere. Era un uomo rude che poteva contare su un grande senso dell’humor. Un personaggio enigmatico, contraddittorio. Aveva una doppia vita, amava i segreti, sapeva essere serio nella pratica della sua arte e anarchico, come si vede nell’episodio, realmente accaduto, quando mette la macchia rossa sul suo quadro impastato di grigi, dopo aver visto quello di Constable, dominato dai rossi… ».

Nonostante il film parli della corposità delle spatolate e dei paesaggi costruiti solo con la materia cromatica, Turner è girato in digitale. «Non abbiamo avuto altra scelta a causa della storia del progresso – spiega il regista. Dick e io siamo sempre stati appassionati sostenitori della pellicola e del 35 mm, in fondo siamo e restiamo uomini del XX° secolo. La verità è che i laboratori stanno chiudendo e non si trova più la pellicola vergine per poter girare. Ormai è materiale obsolescente, se non già obsoleto. Le nuove tecnologie ci sono venute incontro, sono fantastiche per ciò che possono offrire… Abbiamo deciso di imparare a suonare questo nuovo strumento e siamo soddisfatti del risultato. Le videocamere si sono prestate bene al lavoro che volevamo realizzare sul piano della fotografia. Naturalmente, abbiamo ancora nostalgia dell’epoca della pellicola. Non riteniamo però di esserci venduti, né di aver fallito un test a cui ci eravamo sottoposti. La realtà attuale è questa e la consideriamo in modo assolutamente positivo».