Della guerra siamo soliti elencare diversi aspetti tragici e ovvi, ma raramente si mette a fuoco una delle sue caratteristiche più proprie: l’essere terribilmente noiosa, nel senso letterale di un’espressione che combina, appunto, tedio e orrore. È questa combinazione che il lungo racconto di Ludwig Renn (pseudonimo di Arnold Friedrich Vieth von Golssenau), semplicemente intitolato Guerra (L’orma, pp. 312, euro 18,00) ci restituisce, pagina dopo pagina, con scarna precisione. E, tra tutte le guerre della storia, la prima guerra mondiale è forse proprio la più sanguinosamente noiosa.

Renn combatte sul fronte occidentale: i giorni, i mesi, si susseguono in una terrificante routine in cui nulla riesce a emergere davvero, a risaltare, ad assumere un contorno preciso. I personaggi appaiono e scompaiono – uccisi, trasferiti, fuggiti, catturati – con una breve annotazione senza enfasi. Nessun pathos, d’altronde, sarebbe in grado di misurarsi con la monotona enormità dell’orrore. Così il narratore procede e annota meticolosamente il frammento di realtà alla portata dei suoi occhi e soprattutto delle sue orecchie. Ripetutamente la parola si interrompe per lasciar posto alla voce onomatopeica delle armi. Ogni granata, ogni proiettile, cannone o mitraglia riceve il suo suono, il suo accento, il suo timbro più infantile che minaccioso. Paolo Monelli, giornalista saggista e narratore, riporta ciascuno di questi suoni con cura nella sua traduzione del romanzo di Renn del 1929, un anno dopo la pubblicazione in lingua tedesca.

Immaginiamo la radiocronaca di una partita di cui non si conoscano le regole, condotta non dall’alto di una tribuna, ma nel bel mezzo della mischia dove lo sguardo non riuscirà mai ad abbracciare l’interezza del campo, il senso del gioco e l’andamento della partita. Renn sviluppa il suo racconto da questa scomoda posizione, da questo orizzonte ristretto, immediato. Dove tutto diventa spettrale e sfuggente: il paesaggio, il nemico, i propri compagni e perfino il proprio corpo. Situazioni e azioni, gesti e parole, inedia e accelerazione si ripetono ossessivamente quasi senza varianti più e più volte. La stessa, costante minaccia di morte, che su tutto incombe, si mostra uniforme e indifferente come il cielo plumbeo che sovrasta la battaglia. Solo il carattere dei singoli, tratteggiato in poche battute, lascia intuire a sprazzi la varietà umana schiacciata dal rullo compressore della guerra.

Come il sibilo delle pallottole così frammenti di pensiero, brandelli di dialogo, domande senza risposta intervengono a tagliare l’aria immobile della trincea. Ma rimangono lì, interrotte e sospese nel vuoto, solo per il breve tempo necessario a formularle. La guerra si sottrae a qualunque commento. È, in fin dei conti, indiscutibile.

Nel suo riferire ogni dettaglio, ogni movimento, ogni zolla di fango e tronco calcinato, ogni cadavere d’uomo o di cavallo, nel misurare attentamente tempi e distanze, l’autore si cimenta nel più rigoroso realismo. Con un effetto paradossale (ma non così sconosciuto al realismo stesso): quello di trasmetterci un racconto assolutamente fantastico, irreale, metafisico, totalmente in balia dell’ignoto. Ed è proprio questo lato misterioso, questa irruzione dell’assurdo in una realtà che la realtà ha mandato in frantumi a catturare l’attenzione del lettore. E a inoltrarsi silenziosamente nelle viscere della guerra. Ma, probabilmente, all’epoca della sua uscita, il romanzo incontrò uno straordinario successo poiché riportava, senza schieramenti ideologici o interpretazioni troppo nette, una drammatica esperienza largamente condivisa.

Della disfatta, della rivoluzione solo un’eco lontana, ristretta in poche pagine. Eppure, dopo la fine della guerra, la storia di questo aristocratico sassone fu quella di un militante comunista. Iscritto al partito, arrestato dai nazisti, fuggiasco e combattente nella guerra di Spagna, esule in Messico e infine approdato agli onori conferitigli dalla Repubblica democratica tedesca.