Stefano Savona era un archeologo, tra i diciannove e i ventiquattro anni ha partecipato a diverse spedizioni, poi ha studiato antropologia finché appunto non è arrivato il cinema. Viene da chiedersi di fronte alla sua opera se e quanto gli studi di archeologia (e da antropologo) abbiano influenzato le sue scelte di regista. La risposta immediata – prima ancora di ascoltare la sua – è sì, a cominciare dall’attenzione in ciascuno di loro alla storia e a quella trama di relazioni antiche, depositate nella cultura dei paesi oltre le divisioni della geografia e della politica, che lui illumina attraverso i conflitti e la voce di coloro troppo spesso esclusi dal quadro.

Palermitano migrante come è nel dna della sua terra, dopo un breve passaggio romano arriva a Parigi nel 2004, intanto ha scoperto i film di Vittorio De Seta e nella capitale francese conosce Jean Rouch. Il primo film parla della sua Sicilia al di qua e al di là delle sponde del Mediterraneo, le stesse che oggi vengono attraversate da migliaia di persone rischiando la vita verso quei porti che i gialloverdi al governo in Italia vogliono chiusi. Si chiama Un confine di specchi (2002), è girato tra gli emigrati siciliani in Tunisia e quelli tunisini in Sicilia: vite sui bordi che intrecciano diffidenza e assimilazione, distanze impercettibili e al tempo stesso nette.

Poi c’è stato Primavera in Kurdistan (2006), premiatissimo – per il regista è la rivelazione internazionale – in cui l’archeologia era un passaggio molto bello, testimonianza di una storia antica nel diario di esistenze in guerra delle giovanissime combattenti curde contro l’esercito turco. Piombo fuso (2009) che del suo ultimo film è un po’ l’origine, lo porta in Palestina, a Gaza durante l’operazione che dà il titolo al film, una dei più violenti massacri compiuti dall’esercito di Israele contro i palestinesi.Nel 2011 Savona è al Cairo durante la rivolta contro il regime di Mubarak, filma condividendo lo spazio di chi è i piazza. Il risultato è il magnifico Tahrir, che oltre la cronaca sa cogliere la fisicità dell’entusiasmo, di un’utopia, di speranze e aspettative diverse e comuni ma anche di contraddizioni, perché nulla è mai lineare nei suoi film, e questa è la loro forma politica.

LA SUA CITTÀ torna in  Palazzo delle Aquile (2011, codiretto con Ester Sparatore e Alessia Porto) e vive nel teatro di un’occupazione: un gruppo di famiglie senza casa che entrano per un mese nel Palazzo sede del comune di Palermo. Lo spazio pubblico diviene privato e viceversa, mostrando come la piazza Tahrir le possibilità – e le ambiguità – di un gesto politico. «Credo, col senno di poi, che, al di là della passione per la storia, c’è qualcosa di archeologico nell’ossessione per i dettagli con cui penso il mio lavoro» dice Savona.

Dettagli, appunto. Tracce. Frammenti come in un puzzle del mondo tra occidente e oriente a cui dare una nuova forma cercando le affinità, le relazioni invisibili per restituire ciò che non ha immagine né narrazione. La storia è la sua scommessa dunque prima della memoria, anche se a volte capita di doversi muovere sulla linea fuggente tra le due come in La strada dei Samouni nel quale memoria e storia divengono gli strumenti del racconto, ricostruiscono la realtà nelle parole e nei ricordi di chi l’ha vissuta, rimandano a una situazione che sorpassa ciascuno di loro. La famiglia Samouni Savona l’aveva incontrata per la prima volta ai tempi di Piombo fuso, avevano perso familiari, casa e prima di tutto sé stessi incapaci di rendersi conto di quanto gli era accaduto, loro che avevano sempre vissuto pacificamente in quella zona di campagna, da agricoltori senza particolari problemi con lo stato di Israele dove anzi qualcuno della famiglia aveva lavorato.

La piccola Amal, che diventa la protagonista del film, presentato lo scorso anno a Cannes, alla Quinzaine dove ha vinto l’Oeil d’or per il miglior documentario, poi nei festival di tutto il mondo e ora nella cinquina dei documentari ai David di Donatello – la serata di premiazione sarà il prossimo 27 marzo – prova attraverso le parole a ricostruire ciò che non ha più immagine, il sicomoro sotto il quale riposava il padre e lei giocava con gli altri bambini, i riti di un’esistenza…

Di La strada dei Samouni Savona è anche il produttore – insieme alla Dong di Marco Alessi, anche lui palermitano, oggi uno dei produttori più vivaci in Italia – con la Picofilms che hanno fondato lui e Penelope Bortouzzi a Parigi per sostenere quei progetti a cui si sentono vicini – tra gli altri Il muro e la bambina di Silvia Staderoli, Tutto l’oro che c’è di Andrea Caccia. Savona oltre a fare cinema lo insegna, anche se non ha mai fatto una scuola, tiene corsi alla Femis, ha insegnato al Centro sperimentale di Palermo: «Agli studenti cerco di spiegare come dare un senso alle immagini attraverso il proprio sguardo. Le facilitazioni che oggi ci offre la tecnologia da sole non servono a nulla se non ci si mettiamo dentro noi stessi».

«La strada dei Samouni»parte dai materiali che hai girato nel 2009 durante «Piombo fuso». In più c’è l’animazione di Simone Massi che ricrea il passato, quanto non possiamo più vedere.
Il cinema può ricostruire il paesaggio, è parte della sua natura ma questa archeologia dei luoghi, ciò che appartiene alla memoria, deve basarsi su dati reali. Se il ricordo non ha basi concrete si rischia di reinventare il passato attraverso il presente. È il lavoro che cerco di fare nei miei film per dare allo spettatore degli strumenti con cui elaborare un proprio punto di vista. In questo senso in un film come La strada dei Samouni l’animazione era per me fondamentale, mi permetteva di mostrare chi non c’era più attraverso la memoria dei sopravvissuti che così potevano condividerla con lo spettatore. L’animazione è come un archivio, restituisce una vita che è scomparsa per sempre e che sarebbe stato impossibile mostrare. Mentre facevo Piombo fuso non pensavo che sarebbe diventato una sorta di prologo di un altro film, sentivo però che mi mancava qualcosa, che per seguire la cronaca di quei giorni non ero riuscito a penetrare oltre la superficie dei fatti. Non ne avevo avuto nemmeno il tempo, filmavo, poi montavo, ogni sera spedivo i piccoli film in Italia dove venivano messi in rete… Diciamo che Piombo fuso è stato un primo passo, mi ha permesso di conoscere la famiglia Samouni, da allora sono passati dieci anni, e forse anche grazie a questa distanza sono arrivato a La strada dei Samouni.

Di fronte a questa soggettività a un certo punto irrompe la freddezza dei droni militari che sposta il punto di vista dai Samouni all’esercito israeliano.
Quel passaggio aiuta a rendersi conto del modo in cui i militari rendono astratti i loro obiettivi. Non ci sono esseri umani ma target, che siano bambini o vecchi o uomini o donne poco importa: ciò che conta è il loro potenziale di nemico e tutto da lontano diviene una possibile arma, anche un giocattolo. È un processo di disumanizzazione.

C’è un altro aspetto nel film che ritorna nei tuoi lavori, anche se ogni volta sei vicino ai tuoi personaggi, dentro le situazioni, li mostri sempre nella loro complessità. La famiglia Samouni per esempio esprime una cultura fortemente patriarcale, le donne della famiglia fanno fatica…
I miei film si situano sempre in contesti non semplici che io voglio abbiano il loro peso nella storia. Non mi interessa offrire un’immagine in cui ci sono «i buoni» e « i cattivi» o che assecondi i luoghi comuni sulle situazioni che racconto. Anche per questo giro tantissimo e cerco di instaurare dei rapporti più stretti con la realtà in cui mi muovo. Nel confronto con questi universi mi interessano le sfumature, i problemi che pongono. Sarà anche il mio lato di antropologo, che mi spinge a trovare un interlocutore privilegiato: devo capire le cose, e per farlo le devo affrontare da più aspetti. Credo che qui sia anche la politicità dei miei film.