Di certo esiste un paesaggio culturale novecentesco popolato da «protagonisti atipici», personaggi che hanno lasciato una traccia profonda nel campo dei saperi umanistici pur provenendo da studi differenti o esercitando professioni non direttamente legate a quelle discipline. Tra loro Antonello Gerbi (1904-1976) occupa un posto primario, sia per la caratura intellettuale sia per la vicinanza a Raffaele Mattioli, figura probabilmente irripetibile di banchiere mecenate. La natura di «anarchico costituzionale» (come Gerbi si autodefiniva) non gli impedì di catturare la stima di Benedetto Croce, che gli fece stampare la sua tesi di laurea da Laterza nel 1928 (La politica del Settecento. Storia di un’idea), né di trascorrere un’opportuna e formativa veglia d’armi storico-economica nelle principali capitali europee, prima di approdare all’Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana nel 1932. Ma la tranquillità non sarebbe durata: Gerbi era ebreo – per quanto secolarizzato – e nel 1938, all’indomani delle ignobili leggi razziali, Mattioli lo spediva in Perù, salvandolo dalle successive persecuzioni nazifasciste. L’esilio durò fino al 1948 procurando a Gerbi una sorta di proficuo choc, una reazione tra le sue conoscenze di storico delle idee europee e le suggestioni del Nuovo Mondo, da cui nacquero capolavori imprescindibili e ancora ristampati, come La disputa del nuovo mondo. Storia di una polemica 1750-1900 e La Natura delle Indie nove. Da Cristoforo Colombo a Gonzalo Fernández de Oviedo.
Durante il soggiorno peruviano Gerbi non trascurò tuttavia argomenti più europei, osservandoli magari dal suo nuovo punto di vista, e lasciò poi inediti alcuni lavori stesi in quegli anni e successivamente aggiornati. Tra questi viene oggi recuperato il Centone bruniano (a cura di Francesco Rognoni e Silvia Berna, con uno scritto di Sandro Mancini, Sedizioni, pp. 196, euro 22,00) e l’idea è felicissima; innanzitutto perché il testo, incompiuto ma già condotto dall’autore a un perfetto grado di elaborazione formale, è il saggio di uno dei migliori prosatori «non professionisti» del secolo scorso. Lo stile più nervoso e scattante di Gerbi trova in Giordano Bruno un argomento congeniale e si produce in un esercizio di alto livello, ben riconosciuto da Rognoni nell’Introduzione. Inoltre il Centone si può, e anzi si dovrebbe leggere in parallelo alla memorabile biografia di Antonello Gerbi che il figlio Sandro ha composto (Raffaele Mattioli e il filosofo domato, 2002, 2017): la genesi del trattato, le difficoltà nel reperimento della bibliografia utile nel lontano Perù, ma anche il fecondo incrocio delle esperienze personali ne risultano illuminate.
Nonostante l’età il trattato si può raccomandare ai moderni lettori di Bruno, seppure con le minime cautele suggerite dalle belle pagine di Mancini in coda al volume. Gerbi considera le opere in volgare del Nolano e ne isola la parte filosoficamente più pratica; è attirato dagli aspetti dinamici e progressivi di quel pensiero. Significativamente Gerbi individua due coordinate d’origine – quasi due poli generatori – in Cristoforo Colombo, le cui avventure geografiche allargano il mondo terrestre conosciuto, e in Niccolò Copernico, le cui scoperte scientifiche moltiplicano i mondi possibili all’infinito. Ne scaturisce una visione dialettica universale di continuo superamento, che rifiuta la soddisfazione di qualsiasi stasi appagata.
Il principio di ogni movimento e progresso si trova nella contrarietà, nella coincidentia oppositorum, in un flusso dinamico che Bruno oppone all’inerzia della tradizione e che prelude a sviluppi cruciali, quali lo Storicismo ottocentesco. La prospettiva ribalta perciò l’equilibrio dei valori, spostando l’ago dalla veritas filia temporis verso il tempus pater veritatis: contro l’autorità normalmente conferita al passato bisogna affermare che il passato è stato presente e che il presente diverrà a sua volta passato, che insomma «i veri antichi siamo noi».
Gerbi dipinge un Bruno che potremmo definire «antirinascimentale», figlio dell’attivismo del Rinascimento e avversario della pedanteria dell’Umanesimo. Grava su questa parte una comprensione storica ancora inadeguata dell’Umanesimo stesso, che ne trascura gli esordi e gli sviluppi più mossi e drammatici: quei germi inquieti che dalla fine del Trecento in poi precedettero ogni successivo scatto in avanti. Il pregiudizio era tuttavia largamente condiviso allora e sarebbe stato superato in maniera compiuta solo più tardi. Preme piuttosto rilevare come le vaste e intelligenti letture dell’autore gli consentono articolate digressioni a partire dal testo bruniano: digressioni che arretrano al Medio Evo e si spingono fino al Romanticismo e oltre (molto ricca quella sul topos dei «nani sulle spalle dei giganti»).
La filosofia della prassi di Bruno pone comunque limiti etici. Sul piano politico la sua visione è contrapposta da Gerbi a quella di Machiavelli, perché meno realista ma animata da una profonda esigenza di «socialità, di convivenza, di conversazione umana». L’immagine simbolica di Minerva, tratta dallo Spaccio de la bestia trionfante, vigila perché, oltre alla sapienza, la lancia è necessaria per «resistere e ripugnare» ai violenti. Scritto in tempi oscuri di guerra e di esilio, ma fiducioso negli infiniti mondi possibili e nella difesa del diritto calpestato, il Centone ci raggiunge in un mondo sempre più piccolo e diviso, lanterna piccola ma non fioca.