Il libro dei bambini soli (Il Saggiatore, pp. 192, euro 21) di Enrico Sibilla è una dichiarazione di teatralità funzionale, la messa in scena stessa di una costruzione scenica dentro la quale a rilucere sono i bagliori degli elementi emotivi in rifrazione continua. Un libro dunque opaco nel senso più calviniano possibile. Costruito per brevi ma densi quadri, Il libro dei bambini soli è la rappresentazione di una umanità mobile colta nello spazio infantile che sta tra il ricordo e il rimpianto, tra la risalita in superficie di un gusto come di un’emozione, e la sua nostalgia.

Sei sono i capitoli che incorniciano una scrittura ossessiva ed estremamente ritmata che propone il bagliore dell’infanzia come un elemento musicale. Enrico Sibilla, qui al suo esordio, propone una scrittura metallica, ma al tempo stesso aggrovigliata nel suo aspetto più abile, ossia la costruzione di inesplicabili labirinti che non conducono a una storia, ma alla sua stessa mancanza.

L’INFANZIA È LA SENSAZIONE che prende forma in un tempo altro che non appartiene al bambino e tanto meno all’adulto. Una sorta di spazio generativo che il libro, perché questo è giustamente dichiarato nel titolo, tiene a sé restituendogli forma e sostanza. Un libro ambizioso che a una ricostruzione alle volte anche piana delle sensazioni restituisce una solidità non solo formale alla narrazione. Enrico Sibilla sguscia da un tempo all’altro mantenendo tuttavia la rotta con fermezza, nulla sfugge infatti alla ricostruzione letteraria che definisce con incanto la storia dei bambini soli di fronte allo svolgersi della vita e quindi alla loro obbligata dipartita.

SEI CAPITOLI dunque o meglio ancora sei pannelli dentro ai quali Sibilla dà forma a brevi narrazioni di rituali, gesti, avvenimenti minimi che costituiscono la presa di coscienza di questi bambini qui allo stato di imprevedibili oggetti umani dispersi in un universo che ripropone al di là di ogni forma di conoscenza la propria ineluttabilità vestita di spazio e di tempo.

LUCE E OPACO sono due cardini utili alla lettura, come anche il mito e l’epica che si riannodano attorno alla fiaba, un antipinocchio viene definito nella quarta di copertina, ma forse più ancora un pinocchio simmetrico che si oppone al Pinocchio. Un libro parallelo di Giorgio Manganelli vero e proprio riferimento dell’autore, almeno pare in alcuni tratti.

Come nel libro di Manganelli non è la suggestione narrativa a muovere le intenzioni dell’autore, ma l’oggetto stesso di Collodi che da burattino si fa libro così come qui si potrebbe dire dell’infanzia che da imprevedibile stato dell’umano assume la forma di stadio letterario indefinito, ma certamente e precisamente di un libro. Sibilla non costruisce a differenza del già citato Italo Calvino un oggetto stabile e lucido pur con le sue inevitabili ombre, ma adegua il passo a una contemporaneità che non può che essere ridotta a macchina inutile capace di pulsione, ma non di generare nuove forme. L’infanzia come l’inizio, ma anche come lo stato ultimo prima della morte, il buio assoluto che non appartiene all’opacità come alla luce rifratta che accende e tedia le dinamiche narrative dei bambini soli.

UN LIBRO AMBIZIOSO nella ricerca di una necessità e di un’urgenza che giustifica anche piccoli inciampi che paiono più che altro frutto di una promettente vivacità narrativa. Il libro dei bambini soli è il tentativo stoico di ricostruire una forma letteraria libera da ogni possibile vincolo di narrazione: la lingua riprende il proprio spazio con i difetti, i limiti e anche le brutture obbligatorie per chi come l’autore ambisca a un verso che non sia solo banale levigatura dell’attualità imperante.