Nonostante i sempre più evidenti segni di logoramento, se non di vero e proprio declino, la forza egemonica del neoliberalismo continua a risiedere nella capacità di assorbire e ritradurre nel proprio principio d’ordine alcune delle istanze di libertà, di emancipazione dell’individuo e di spinta alla sua autoattivazione dal basso svincolata, almeno apparentemente, da forme di organizzazione intermedie che orientano e regolano la sua volontà. Il paradosso generato da questa concezione è che il compito della politica si riduce essenzialmente a quello di garantire ai singoli la possibilità di agire e competere in piena autonomia all’interno dello spazio pubblico. Essa smette dunque di essere il luogo di elaborazione collettiva di un punto di vista sul mondo: si spoliticizza, perde il suo tratto umano e assume la funzione di arbitro incaricato di sgombrare il campo da qualsiasi impedimento che interferisca con il gioco delle interazioni molecolari tra individui.

L’IDEA – decisiva nei trent’anni gloriosi del Novecento – secondo cui la società nel suo insieme possa essere ordinata da una centralità umana che trova la propria legittimità e il proprio orientamento politico nella rappresentanza, nel lavoro dei corpi intermedi e nel conflitto tra capitale e lavoro, ha lasciato il posto a un’ideologia che predilige l’individuale al collettivo, il privato al pubblico, il mercato alla volontà politica, la governance alle istituzioni democratiche.
Per usare una felice metafora rielaborata da Onofrio Romano, questo dispositivo neoliberale organizza i propri attori sociali entro un immaginario orizzontale ispirato al principio della naturalità sovrana e senza confini del mercato in contrapposizione a quei modelli sociali novecenteschi fondati invece sulla mediazione e sulla verticalità dell’autorità politica.
Nel suo recente volume La libertà verticale. Come affrontare il declino di un modello sociale (Meltemi, pp. 340, euro 24) Romano tuttavia non si limita a smascherare il carattere alienante, nichilistico e tendenzialmente dispotico che si nasconde nell’orizzontalismo neoliberale, né rinuncia a interrogarsi sui limiti e le degenerazioni storiche del verticalismo, ma offre, attraverso una puntale ricostruzione storico-politica, una riflessione sull’origine e sull’alternarsi nel corso degli ultimi due secoli di tensione alla verticalità costituente e aspirazione all’orizzontalismo decostruttivo.

IL QUADRO che se ne ricava è indubbiamente fecondo e originale, soprattutto quando rivela il rapporto complesso, e non di semplice opposizione, tra questi due modelli concettuali. Mostra in particolare come le radici dell’attuale neo-orizzontalismo siano direttamente legate al progetto socialdemocratico affermatosi nel Novecento e agli esiti imprevisti del compromesso tra capitale e lavoro raggiunto nel secondo dopoguerra. Se infatti in quella fase l’Europa occidentale, Italia inclusa, ha conosciuto un eccezionale progresso attraverso l’estensione dei diritti, l’istruzione pubblica, la creazione del tempo libero, l’accesso al consumo, quello stesso avanzamento ha favorito l’insorgere di un’idea di libertà fondata sull’individuo e sulla disintermediazione poco compatibile con i propositi della società regolata e con le proposte socialdemocratiche.

NON È PER QUESTO un fatto trascurabile che proprio i partiti socialisti europei, dopo una prima fase dominata da Thatcher e Reagan, abbiano reagito al declino del proprio modello mutando progressivamente il proprio dna e sposando la prospettiva neoliberale.
Romano naturalmente non trascura le numerose altre ragioni che hanno portato alla crisi del verticalismo socialdemocratico, ma mette in guardia dalla tentazione di contrapporre all’attuale neoliberalismo la semplice e impossibile riproposizione di ricette passate. Il crinale politico lungo cui si muove tiene conto della dialettica dell’individuo moderno che vive combattuto tra l’aspirazione orizzontalista di liberarsi di un centro regolatore e la sua stessa incapacità di un affrancamento radicale, senza vincoli, nella solitudine di imprenditore e legislatore di se stesso. Proprio per questo la prospettiva di un ritorno al modello verticale, che nel suo scritto Romano pensa anche attraverso il recupero della tradizione del comunismo italiano, si carica di un tratto esistenzialistico e antropologico che intende riconfigurare in termini non più solo materialistici la sfida all’egemonia neoliberale.

NELL’IDEA DI COMUNISMO – la libertà verticale – che emerge dalle ultime pagine del suo volume si scorge in controluce non la promessa del sol dell’avvenire, di un mondo altro, ma il profilo della «social catena» leopardiana, capace di farsi carico non solo della responsabilità del politico e della verticalità, ma anche della precarietà ontologica dell’umano, delle sue contraddizioni e del carattere tragico della sua finitudine.