Ha resistito un anno intero il presidio di Tahrir, guardato e protetto dal Turkish Restaurant, il grande palazzo abbandonato che dà sulla piazza, nel centro di Baghdad. Un anno di autogestione, di dibattito, di creatività, ma anche di stragi, di infiltrazioni esterne.

Le forze di sicurezza irachene sono entrate sabato, domenica mattina non restava granché: tende distrutte ammassate ai lati della piazza dai bulldozer, i cartelloni con i volti dei martiri della repressione divelti, portati via anche i disegni dei bambini, sparite le barricate. Al posto dei manifestanti ora ci sono i soldati.

Con la ripresa delle manifestazioni contro la classe politica, la corruzione e il sistema di potere settario, in occasione del primo anniversario della mobilitazione (il primo ottobre e poi il 25), sono ripresi anche gli scontri.

Epicentro, di nuovo, Piazza Tahrir nella capitale irachena. Il presidio non aveva mai smobilitato, in questi mesi di emergenza sanitaria le marce si erano rarefatte ma le tende restavano e con loro gli attivisti, a difesa del movimento popolare.

Tra sabato e domenica quel presidio è sparito e, un anno dopo, il governo ha potuto riaprire sia la piazza che il ponte al-Jumhuriya, sul fiume Tigri, uno degli accessi alla blindatissima Zona Verde, sede dei ministeri, dell’ufficio del primo ministro, delle ambasciate straniere.

Scene simili a Bassora dove nel fine settimana e di nuovo ieri la polizia ha disperso i sit-in nella città meridionale, quella da cui è partito tutto: le proteste estive contro mancanza di servizi e disoccupazione strutturale sono state in qualche modo il modello della successiva mobilitazione nazionale.

Ieri a Bassora era anche il giorno del funerale di un manifestante, Ahmed Hashem, morto domenica per le ferite riportate negli scontri. Una delle oltre 600 vittime della repressione di piazza, in questo anno. Manifestazioni, in solidarietà con Tahrir, se ne sono registrate ovunque, da Wasit a Dhi Qar, da Nassiriya a Hilla alla stessa Baghdad dove in centinaia tornavano sul luogo dell’ex presidio.

In piazza e sui social in tantissimi hanno espresso la rabbia e il dolore per una rimozione che, negli intenti governativi, dovrebbe significare il silenziamento definitivo della protesta. Per questo da giorni si susseguono dichiarazioni di impegno, a mantenere viva la mobilitazione.

E in qualche modo anche a trarre l’elemento positivo: da tempo, scrivono alcuni, il presidio era stato oggetto di pericolose infiltrazioni da parte delle milizie sciite, da quelle sadriste a quelle filo-iraniane (dall’organizzazione Badr all’Harakat Hezbollah), ritenute responsabili di una buona fetta di repressioni e aggressioni armate.

A Middle East Eye lo spiega la studentessa Noor al-Taie: “Abbiamo deciso di lasciare la piazza temporaneamente per aiutare le forze di sicurezza ad arrestare gli infiltrati, quelli che hanno ucciso e ferito i manifestanti. Ma siamo rimasti sorpresi dal vedere che sono entrate nella piazza, con alti funzionari militari, e ordinato la distruzione delle tende e l’arresto di manifestanti mentre dormivano”.

“Torneremo – aggiunge – con un movimento ancora più grande”.

È forte la consapevolezza che, un anno dopo, nessuna delle richieste della piazza è stata ascoltata: le diseguaglianze sociali si ampliano, il lavoro è stato ulteriormente mangiato dalla crisi seguita all’epidemia di Covid (il tasso di povertà assoluta è salito al 40%) che ha sottolineato – se ce ne fosse stato bisogno – l’assoluta impreparazione dei servizi pubblici.

A ciò si aggiunge l’assenza di giustizia per le vittime della repressione, la sparizione di centinaia di manifestanti e il binario morto su cui sono finite le presunte inchieste del governo. I partiti politici non sono cambiati, né il sistema di potere si è secolarizzato, rimanendo legato alla struttura settaria etnico-confessionale.

Da parte del premier Khadimi, che tanto ha promesso al movimento, è giunto un tweet in cui chiede ai manifestanti di compiere il loro “dovere patriottico” e ribadisce che nuove elezioni si terranno il prossimo giugno. Ancora una volta si scambia la democrazia per un impegno elettorale.