Nel giorno di Santo Stefano, il centodecimo di vacanza negli undici mesi di presidenza, il Wall Street Journal ha contato una quarantina di giorni trascorsi da Donald Trump a Mar-a-Lago, il resort per super ricchi a Palm Beach, di cui è proprietario, e un’altra quarantina passati nell’altro buon retiro, a Bedminster in New Jersey, uno dei più grandi ed esclusivi campi da golf d’America, anch’esso parte del suo regno.

L’immobiliarista di Manhattan, un Caltagirone moltiplicato al quadrato, non ha rinunciato a nessuno dei suoi svaghi dacché è diventato il quarantacinquesimo presidente degli Stati uniti, con grande dispendio di mezzi e fondi per la protezione sua e della sua famiglia, mezza della quale peraltro direttamente impegnata negli affari di stato.
Tanto, per molti versi, sono il proseguimento e l’ampliamento dei soliti affari privati. Come la recente approvazione del Tax bill, la riforma fiscale che consentirà alla sua dinastia, come alle altre grandi famiglie del capitalismo americano, di far lievitare ancora di più le loro fortune.

E il tempo che resta, quando non è sui campi golf?

Sia quando è nei suoi resort o a Camp David, sia quando è nella sua residenza e nell’ufficio ovale della Casa bianca, Trump trascorre ore, il televisore sempre acceso, guardando i programmi su Fox News che incensano la sua presidenza e che gli ispirano i tweet in cui magnifica le sue decisioni, tutte ovviamente straordinarie e senza precedenti. Ma guarda anche i notiziari e i talk show che egli considera ostili ma che fanno semplicemente il loro mestiere – Cnn e Msnbc in primis – e che sono fonte primaria dei suoi tweet di adolescenziale incontinenza verbale contro i suoi avversari.

E magari fosse solo questione di stile, anche se è sempre opportuno ricordare che lo stile è l’uomo.
Trump è un presidente che definisce i suprematisti bianchi e gli affiliati al KKK «persone molto perbene», e che incarica la sua ambasciatrice all’Onu di «prendere i nomi» dei paesi che hanno votato contro una risoluzione da lui firmata, è un presidente che sfotte capi di stato e leader politici, che straparla di «alternative facts» e che cerca di sfasciare quel tanto che c’è di pubblico e che in America non è tanto e dove, perciò, chi ha poco o niente avrà ancora di meno.

Ognuno dei suoi atti, ognuna delle sue scelte, ognuno dei suoi ormai innumerevoli tweet avrebbe provocato una catastrofe politica, in altri tempi, con qualsiasi presidente al potere, democratico o repubblicano.

Tanto che i media, a ognuno dei suoi passi falsi, ne ha decretato più volte la fine imminente, anche sbandierando i sondaggi, tutti negativissimi fin dall’inizio della sua presidenza. Non è successo, anzi è esattamente successo quanto accadde più volte durante la campagna elettorale, quando le sue performance totalmente fuori registro e spesso indecenti, prima nelle primarie repubblicane, poi nello scontro diretto con Hillary, avevano fatto più volte fatto pensare che la sua uscita di scena sarebbe stata inevitabile.

Non è accaduto ed è poi accaduto l’impensabile, la sua vittoria contro la superfavorita Clinton.

E adesso? Dopo un anno in cui la parola impeachment ha rimbombato più volte nei palazzi di Washington e nelle redazioni, sembra più probabile il licenziamento del procuratore speciale Robert Mueller che la sua messa in stato d’accusa.

A questo punto, in vista del secondo anno di presidenza ancora più da montagne russe, è il caso di sforzarsi di ragionare in termini più politici che emotivi, quelli prevalenti finora, non più cioè affidandosi alla speranza che l’ennesimo passo falso si riveli fatale o che l’inchiesta di Mueller lo metta definitivamente alle corde.

La svolta politica, la può offrire la mobilitazione che ha preso le mosse dal recente successo in Alabama, terra di estremismo repubblicano e oggi trumpista, del candidato democratico Doug Jones.

La campagna per le elezioni di medio termine, il prossimo novembre, è iniziata dunque in Alabama, dove l’impossibile si è rivelato possibile.

Non solo per l’alta partecipazione degli elettori neri – di per sé però un dato politico rilevante – ma anche per il profilo più determinato assunto dal Partito democratico, dove adesso le voci di Elizabeth Warren e di Bernie Sanders sembrano trovare più ascolto di quelle dei centristi clintoniani. L’estremismo di Trump ha almeno il merito di ridare tono alle forze che da tempo chiedono una postura da Partito davvero democratico e non, com’è stato per troppo tempo, da partito versione light del reaganismo.