Il Medio oriente è con ogni probabilità l’area geografica che annualmente ispira il maggior numero di saggi, instant book e ricerche accademiche. L’ultimo nato è «Il Medio oriente contemporaneo nell’età degli sconvolgimenti», del professor James Gelvin (Stanford University). Prende in esame gli ultimi dieci anni e tra i tanti «sconvolgimenti» avvenuti in questo periodo tanto denso (e insanguinato), l’Accordo di Abramo è quasi invisibile. Certo, non è un libro a rappresentare tutta la complessità mediorientale. Ma il fatto che un accademico noto come Gelvin abbia ridimensionato, a dir poco, la portata politica e strategica della normalizzazione tra lo Stato ebraico e quattro paesi arabi, è un dato che non può essere ignorato.

In Israele oggi sarà ricordata la dichiarazione congiunta con gli Emirati di un anno fa che fu descritta come una «pace storica», simile a quella di Camp David con l’Egitto, alla fine degli anni ’70. E mentre scriviamo il ministro degli esteri israeliano Yair Lapid sta siglando intese in Marocco, uno dei paesi – assieme a Bahrain, Sudan, Emirati e Israele – rientrano nell’Accordo di Abramo firmato dal ministro degli esteri di Abu Dhabi Abdullah bin Zayed Al Nahyan, dal ministro degli esteri del Bahrein Abdullatif bin Rashid Al Zayani e dal primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu il 15 settembre 2020 alla Casa Bianca. Eppure, quella che Netanyahu, l’ex presidente Usa Donald Trump e gli Emirati arabi descrissero come la «svolta» che avrebbe cambiato il volto della regione, a cominciare dalla rimozione della questione palestinese dall’agenda mediorientale, è avvenuta solo in minima parte.

Israele negli ultimi mesi ha aperto le sue sedi diplomatiche nelle capitali arabe alleate. Più di tutto ha sviluppato i rapporti economici (già 570 milioni di scambi commerciali e d’affari quest’anno) militari e di intelligence con gli Emirati confermando che l’Accordo di Abramo è più ogni altra cosa una intesa strategica anti-Iran che ridefinisce le alleanze regionali assegnando un ruolo-guida a Israele giunto, grazie ad essa, sulle rive del Golfo. «Parlare di accordo di pace, come quello di Camp David con l’Egitto è insensato – ci dice l’analista Mouin Rabbani di Jadaliya – perché ci riferiamo a Stati che non si sono mai sparati contro un colpo d’arma da fuoco». Inoltre, aggiunge, «mentre il Cairo normalizzò le relazioni con lo Stato israeliano al fine di recuperare il territorio egiziano occupato, gli Emirati hanno sottoscritto un’intesa che di fatto favorisce le ambizioni regionali di Israele. E l’aver spiegato (da parte degli Emirati, ndr) che l’accordo è servito a bloccare l’annessione a Israele della Cisgiordania palestinese, è una foglia di fico che non regge». Rabbani ritiene l’Accordo di Abramo un insieme di «transazioni arabe» con gli Stati Uniti e che la normalizzazione con Israele è stato il prezzo che gli Stati arabi hanno dovuto pagare per ottenere riconoscimenti, la rimozione da liste nere o l’accesso a vendite di armi avanzate da parte dell’Amministrazione Usa.

Questo è il caso in particolare del Sudan che, è stato sin troppo evidente, è andato alla normalizzazione con Israele in cambio della sua rimozione dall’elenco statunitense dei paesi «sponsor del terrorismo», unica possibilità per un paese poverissimo di poter accedere ad aiuti e finanziamenti internazionali. Quanto al Marocco, ultimo in ordine di tempo, a aderire alla normalizzazione, l’apertura di relazioni diplomatiche piene con Israele è stato solo un passaggio ufficiale per due paesi, tanto lontani, che da sempre mantengono strette relazioni dietro le quinte. E in segreto restano i tanti interessi comuni tra Israele e l’Arabia saudita. Riyadh che sotto la spinta del principe ereditario Mohammed bin Salman – apertamente anti-palestinese –  era destinata a diventare il perno dell’Accordo di Abramo, invece ha scelto di restare alla finestra. «Un po’ tutti avevano scommesso sul secondo mandato per Donald Trump» spiega Rabbani riferendosi ai regnanti del Golfo «così non è stato e ora si concentrano su quanto deciderà Washington rispetto all’Iran e al suo programma nucleare. La pace di Abramo è solo uno slogan».