Un anno fa, il 10 giugno 2014, lo Stato Islamico ha occupato la seconda città irachena, Mosul. Sono bastate 24 ore per veder sventolare le bandiere nere sui tetti della città. Da Mosul è partita la vittoriosa marcia di al-Baghdadi, che di lì a poco si sarebbe proclamato “nuovo califfo”. È trascorso un anno: oggi l’Isis controlla un terzo dell’Iraq e quasi metà della Siria, minaccia la Libia, compie attentati in Yemen e Arabia saudita e gode della fedeltà dichiarata di 35 gruppi in Africa e Medio Oriente.

Eppure, dopo 12 mesi, la comunità internazionale non ha strategie. A subirne le conseguenze, in Iraq, è la popolazione. Migliaia di morti, 3 milioni di sfollati e intere comunità governate dal terrore dell’Isis. Soprattutto Mosul, che con la siriana Raqqa condivide la triste etichetta di capitale del califfato. Ieri la Bbc ha reso pubblici video girati in segreto in città e che raccontano la barbara applicazione delle cosiddette “leggi del califfato”: scuole chiuse, moschee in macerie, punizioni corporali per chi non rispetta la folle interpretazione dell’Islam dei miliziani (dalla lapidazione al taglio delle mani), proprietà di minoranze religiose (crisiani e sciiti) confiscate dai jihadisti, imposizioni contro le donne, costrette a coprire completamente i propri corpi.

Ma il video mostra molto di più: la preparazione dei miliziani alla minacciata controffensiva governativa su Mosul. Da mesi Baghdad promette un fronte ampio per riprendere la città, dopo la riconquista di Tikrit e la perdita di Ramadi. E l’Isis prende precauzioni: muove l’artiglieria pesante, raduna gli uomini, fa arrivare i rinforzi dalla Siria, costruisce barricate e mina il terreno.
La sfida a Baghdad – e alla comunità internazionale – è palese, fatta di attacchi continui nella provincia di Anbar, che il premier al-Abadi preme per riprendere: ieri tre miliziani travestiti da soldati hanno ucciso 8 persone in un ufficio governativo a Amiriyat al-Fallujah, una delle poche comunità nella provincia ancora in mano al governo centrale.

E se qualche piccola vittoria Baghdad la registra a Baiji, sede della più grande raffineria di greggio irachena, è l’assordante assenza di tattiche di ampio raggio a dettare l’anno di califfato appena trascorso. Il presidente Obama lo ha ammesso di nuovo, lunedì, al G7 in Germania. Ma la responsabilità, sottolinea, è di Baghdad: «Non abbiamo ancora una strategia completa perché questa richiederebbe l’assunzione di impegni da parte irachena».

Una dichiarazione giunta a poche ore da quella dell’ex segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, che pianificò l’invasione dell’Iraq e oggi, da novello Pilato, se ne lava le mani: in un’intervista al Times, Rumsfeld addossa la responsabilità della seconda guerra del Golfo all’ex presidente Bush. Solo questo sa dire un segretario alla Difesa che sostenne una guerra in cui morirono 500mila iracheni e aprì la strada al disfacimento del paese, allo scoppio dei settarismi interni e in definitiva all’avanzata trionfale del califfo.

A poco serve, allora, il ritornello ripetuto fino alla noia da Obama: che Baghdad coinvolga i sunniti, la comunità che l’invasione Usa ha messo all’angolo, imponendo il governo di Maliki e epurando istituzioni e esercito della sua presenza. Ecco perché una strategia non c’è: la coalizione anti-Isis insiste a operare con i soli raid e a non discutere con chi, sul campo, registra le migliori vittorie. Ovvero, l’asse sciita di Damasco-Teheran-Hezbollah.

Ieri i combattenti libanesi hanno respinto un attacco Isis nella regione di confine di Qalamoun, tra Libano e Siria. Dopo mesi di scontri con le opposizioni islamiste siriane, Hezbollah ha ripulito quasi l’intera zona della presenza di al-Nusra, il braccio siriano di al Qaeda che all’Occidente fa stranamente meno paura dello Stato Islamico, ma che avanza silenzioso a nord e sud del paese.

Così come avanza in Yemen, nel disinteresse totale dell’Arabia saudita e della sua personale operazione militare contro gli sciiti Houthi. Le conseguenze di tanta libertà di movimento sono palesi: la rete qaedista ha il controllo di buona parte della provincia sud yemenita di Hadramaut e del suo capoluogo Mukalla. Si muove con intelligenza, sfruttando il timore sunnita per l’avanzata sciita e evitando barbarie inutili. E, compiendo attacchi contro gli Houthi, si è guadagnata l’immunità. Se fino a qualche mese fa lo Yemen era laboratorio modello alla guerra dei droni Usa, oggi al Qaeda fa meno paura. Perché fa il gioco di Riyadh.