Un anno fa il movimento giovanile in difesa del clima si organizzava e veniva alla ribalta sui media internazionali. La figura di Greta Thunberg, giovane studentesse svedese, emergeva come immagine simbolo di tutto un movimento pronto a sfidare la «nullafacenza» della classe dirigente. Dopo un anno di mobilitazioni, il movimento si trova oggi di fronte un’importante sfida: costringere i governi ad agire davvero.

Se il 2019 è stato l’anno in cui un nuovo movimento è stato capace di coinvolgere le masse e smuovere le coscienze, riuscendo a iscrivere il tema del cambiamento climatico nell’agenda politica con una forza che nella storia recente abbiamo visto solo con il movimento del ‘68, il 2020 deve essere l’anno del cambiamento. Un obiettivo che non sarà semplice da raggiungere, poiché difficilmente i governi nazionali passeranno dalle parole ai fatti.

Il messaggio uscito dalla recente conferenza sul clima delle Nazioni unite, la Cop 25 di Madrid, non lascia ben sperare. E ora tutta la speranza si poggia sulla prossima conferenza sul clima, la Cop 26 di Glasgow, in Scozia, in programma il prossimo novembre. Molti l’hanno già definita come l’ultima occasione per evitare l’imminente catastrofe. È questo il sentimento che anima una generazione angosciata che chiede a gran voce un cambio di passo, una nuova società, con nuovi valori e un nuovo modo di produrre e consumare, ridistribuire ricchezze e risorse. Qualcuno l’ha già definita una nuova internazionale del clima, a cui però la classe dirigente, e anche le vecchie generazioni (a volte proprie quelle che hanno vissuto il ‘68), sono sorde. I segnali che riceviamo non sono rassicuranti. Troppo spesso il dibattito si riduce a futili speculazioni sulle scelte private del personaggio Greta. Un misto di misoginia e messianismo anima entrambi i campi, i pro e i contro Greta, sulle abitudini alimentari della giovane attivista svedese o sulla pertinenza di partire o meno in barca a vela per il continente americano, offuscando così il vero argomento di cui milioni di ragazzi in tutto il mondo sono portatori: il nostro modello economico e sociale ci sta portando alla deriva.

Un messaggio chiaro e inequivocabile che chiede una presa di coscienza che oggi in troppi rifiutano. Senza una reale pressione di un’opinione pubblica convinta della necessità di mettere in discussione il nostro modello produttivo non ci sarà mai quel cambio di rotta che i giovani chiedono. Segnali di frustrazione arrivano già dalle azioni di uno dei movimenti che compongono la galassia di questa nuova internazionale del clima, Extinction rebellion, uno fra i più radicali, con iniziative di disobbedienza civile che hanno già ricevuto l’attenzione delle forze dell’ordine, decisamente meno comprensive rispetto agli scioperi studenteschi del venerdì.

Il 2020 sarà l’anno chiave per capire se l’umanità nel suo insieme riuscirà a rispondere concretamente ai rischi che derivano dai cambiamenti climatici. Il clima del dibattito politico rischia di esacerbarsi di fronte all’inerzia della classe dirigente. Il movimento studentesco rischia di trovarsi, come altri prima di loro, nella posizione di dover decidere se, come e quando alzare il livello dello scontro, con lo spettro della violenza sempre dietro l’angolo, sia essa opera di qualche nuova o vecchia sigla del movimento ambientalista o da parte di chi detiene la legittimità dell’uso della forza.