Dopo aver raccontato, fra documenti e invenzione, la vita e la morte di Edoardo Persico (Dentro il labirinto), provando a ricucire con l’immaginazione le lacune della storia, Camilleri ci riprova, con il medesimo, raffinato editore Skira, questa volta immergendosi nello scivoloso terreno dell’eros. La creatura del desiderio (137 pp, euro 14,50) è una storia di un grande amore che passa dall’acme della gioia all’abisso della disperazione. Un amore fra artisti, il pittore Oskar Kokoschka, e la musicista Alma Schindler, vedova di Gustav Mahler, conosciuta anche per la straordinaria bellezza e per la sua libertà di costumi nel clima ovattato e perbenista della Vienna prima della finis Austriae.

È nell’aprile 1912 che i due si conoscono. Lui ha appena compiuto 26 anni; lei ne ha pochi di più (essendo nata nel 1879), ma all’epoca appariva una relazione scandalosa, tanto più che il marito di Alma, Gustav, era mancato meno di un anno prima. Prima di Gustav, la «donna più bella di Vienna» aveva avuto amanti illustri, a cominciare da un altro Gustav, il pittore Klimt; e artisti di varie discipline, dal teatro alla musica, naturalmente, una passione nella quale, tuttavia, il matrimonio con Mahler non sortì effetti positivi: in sostanza, il musicista non aveva grande considerazione per la sua consorte compositrice di Lieder. Era geloso e possessivo, il che non impedì alla moglie di avere altri amori, primo fra tutti quello con colui che sarebbe diventato il secondo marito, Walter Gropius, l’architetto fondatore nel 1919 del Bauhaus, dal quale divorziò dopo aver avviato una nuova storia amorosa, con il poeta Franz Werfel (poco dopo terzo marito).

L’autobiografia di Alma (edita in italiano da Castelvecchi) è una miniera, non sempre attendibile, a cui il narratore Camilleri attinge, come ad altre fonti edite e inedite, a cominciare dal preziosissimo epistolario di fatto a senso unico, dopo che Alma – e qui anticipiamo il finale, come del resto fa lo stesso scrittore in un racconto fatto di andirivieni temporali – lasciò di colpo, irrevocabilmente, l’uomo a cui lo aveva unito una furibonda passione amorosa durata un paio d’anni. Lo scoppio della guerra, la partenza di Oskar come volontario nelle truppe imperiali, sono lo sfondo esterno alla fine traumatica del rapporto fra i due: la grande tempesta che sconvolge l’Europa, contiene in sé la piccola tempesta di due esseri umani.

La fine dell’Impero austro-ungarico, quella che si respira nell’Uomo senza qualità di Musil, costituisce lo sfondo della vicenda che Camilleri ci propone con occhio freddo e non di rado venato di una raggelata ironia.

Fonte preziosa, inedita in italiano, sono le lettere che Oskar indirizza ad Alma, in un parossismo estenuante ed estenuato che sembra caratterizzare l’intera relazione, dal punto di vista di lui: oltre 400 missive in una manciata di settimane. Una ossessione. Quante di quelle missive ebbero risposta? Non lo sapremo: Alma sottrasse le proprie, introducendosi nella casa che era stata la loro, insieme a non pochi dei tanti disegni che la ritraevano, mentre Oskar giaceva in ospedale, vittima di un grave ferimento al fronte.

Era come se Alma volesse persino cancellare il fatto: ossia che era stata di quell’uomo, che la voleva follemente, geloso non soltanto del presente, ma anche del passato di lei; geloso, in particolare, dell’ingombrante figura di Mahler. Quando hanno appena avviato la relazione, Oskar pretende che Alma rinunci al bel mondo dorato nel quale primeggiava, circondata da ammiratori d’ogni età, esponenti della società intellettuale. «Gli era entrata nel sangue», commenta con uno stile asciutto Camilleri, che sembra voler fare in modo quasi asettico l’anatomia di un amore, cercando di raccontare il punto di vista dell’uno e dell’altra, mostrando comprensione e rifiutando a priori la condanna di qualsivoglia atto fra i tanti pur bizzarri, assurdi o, peggio, di cui quel rapporto fu costellato. Piace del libro proprio la sua asciuttezza denotativa; eppure traspare che fra i due la figura più rigorosa è proprio la «leggera» Alma. Oskar, malgrado l’empatia di questo Camilleri, medico delle anime sotto il sembiante bonario del nonno che racconta una storia davanti al camino, ne esce malconcio.

Alma voleva «addomesticare» quell’orso, e in un primo tempo parve riuscirci: non solo, ma lo trasformò in un essere la cui fedeltà e dedizione a lei erano «totali, addirittura canine». Le scrive lettere appassionate, ma inquietanti: «è agonia per me vederti in mezzo a una folla frenetica. Preferirei vederti solamente in luoghi dove sei sola, cara Alma, con me»; oppure: «Sono passato davanti a casa tua alle dieci, per caso, e avrei potuto piangere di rabbia pensando che riesci a sopportare di esser circondata di satelliti, mentre io mi ritiro in un qualche sporco anfratto»; «… devi sopprimere sul nascere qualsiasi pensiero di un testimone del tuo passato, di un consigliere che non sia io»; «ogni tuo tentativo di fare sfoggio della tua bellezza, è una ferita al mio orgoglio»; e così via, in un crescendo che non poteva che preludere alla fine precoce e traumatica.

E quella fine giunse, a dispetto di una intesa erotica che dovette essere assoluta. Quando Alma capì che era l’orso che voleva imprigionare lei, possederla in modo da cancellarne ogni autonomia, lo abbandonò. La goccia che fece traboccare il vaso è l’aborto volontario di un figlio, il figlio di quell’amore, che Alma decise di compiere dopo un grave litigio con Oskar.

Ma il narratore esprime dubbi: era davvero incinta, Alma? E Oskar diede il suo consenso all’intervento? O fu una decisione improvvisa e non condivisa della donna? La ricostruzione di Camilleri, come l’indagine di un magistrato che non ha tutte le carte in mano, procede a macchia di leopardo, tra vuoti e pieni, tra documenti e supposizioni, tra invenzione e realtà accertata; i dubbi che lo scrittore insinua fanno della vicenda una sorta di Rashomon, con verità che contrastano, fra le dichiarazioni di Oskar e quelle di Alma, fra la vera Alma e il suo doppio.

E qui sta il punto caldo del racconto. Perduta la donna, il pittore che aveva le scritto «non voglio più dipingere questa mediocrità ora che ti ho scoperto», si affida a una provetta artigiana, costruttrice di bambole, per farsi fabbricare un simulacro: come quello di Pigmalione, lo scultore che scolpisce un simulacro, perfetto nelle sue fattezze femminili, con il quale convive, ma ben presto stanco della sua condizione inanimata, chiede ad Afrodite di dargli vita, venendo esaudito. Oskar riceve a casa la «copia» della sua amata, fabbricata secondo le minuziose istruzioni che egli stesso ha dato all’artigiana, confessando, in sostanza, che si attende un «prodotto» nel quale egli possa ritrovare «la forma più seducente… dell’intera femminilità». La veste, la cura, addirittura la porta a spasso per le vie di Dresda dove ormai vive da tempo. Forse spera che Alma venga a saperlo (sulla vicenda esiste un libro di Francesco Permunian, La Casa del Sollievo Mentale, edito da Nutrimenti).

Qui il racconto diventa romanzesco, e l’autore inventa i dialoghi di Oskar e la «seconda» Alma, in un crescendo di allusività erotica e di incombente tragedia. Che si verifica con toni peraltro grotteschi, in una scena di festa tra uomini, con le sole due presenze femminili della bella camerierina che fornisce volentieri prestazioni sessuali al pittore, e, appunto, il simulacro di Alma. Una cena con fiumi di alcol che si conclude con una uccisione simbolica: Oskar decapita Alma, e ne oltraggia il cadavere ormai ridotto a manichino. La creatura del desiderio è per sempre scacciata, l’ossessione vinta, ma Oskar non ne esce come vincitore. È un vinto a sua volta. La sposa del vento, la tela raffigurante l’amata in un estatico abbandono fra le sue braccia, in una atmosfera drammatica (l’altro titolo con cui l’opera, del 1914, è conosciuta, è La tempesta), è quel che ora gli resta di lei.