Le risate si sprecano, tutte involontarie perché non si tratta di una commedia. Cominciamo dall’inizio. Anno 1895. Una coppia, forse russa, arriva a New York con un neonato. Immigrazione. Alla visita medica la giacca di lui viene segnata sulla schiena con un gessetto: tbc. Lui ha il cappotto in mano, diamine, infilalo e nessuno noterà la cosa. Macché, così lo respingono. E allora anche lei torna a casa. E il pargolo? No, lui no, novello Mosè, lo calano nelle acque su un piccolo naviglio sperando che qualcuno lo salvi. Questa è la premessa di Racconto d’inverno. Già chiarissima. Sceneggiatura da delirio che dovrebbe essere giustificata dal fantasy. Ma invece rimane delirante. Akiva Goldsman (sceneggiatore e produttore non ignobile, debuttante ahinoi nella regia) deve avere visto Hugo Cabret, così piazza il suo Peter, nel frattempo cresciuto ma d’aspetto inalterato, a vivere nei meandri alti della Central Station, braccato questa volta da non da un poliziotto ma da un demone in persona che vuole impedirgli di compiere il miracolo cui è predestinato. Già perché Peter campa svaligiando case, è così che incontra Beverly, figlia di un editore, minata dalla tisi e la di lei sorellina Willa. I due si amano, lei però schiatta nonostante il bacio che dovrebbe risvegliarla, lui sbarella e vaga senza memoria per un centinaio d’anni. Quando ritrova una bimba rossocrinita, il demone testardo e Willa che nonostante i cento e passa anni ancora lavora presso la casa editrice del nonno, così finalmente ricostruisce i fatti. Eh, ma è fantasy. No, è cretino, come la battuta serissima «c’è un cavallo sul tetto», in realtà è un cavallo alato, anche se nel film ci dicono essere un cane. Raramente si è visto un tale spreco di attori, Colin Farrell, Jessica Brown Finley, Russell Crowe, Jennifer Connelly, Eva Marie Saint coinvolti in un tale pastrocchio. In uscita ovunque nel mondo per san Valentino con ottime probabilità di diventare «scult» movie.