«E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Waters. Era una sera di maggio, appena prima che facesse buio». Così, in medias res, comincia Le nostre anime di notte, il magnifico romanzo breve che Kent Haruf ha scritto negli ultimi mesi di vita, e che ci viene ora proposto dal suo editore italiano, NN, nella traduzione pressoché perfetta di Fabio Cremonesi (pp. 200, euro 17,00).
Entrambi vedovi e oltre la settantina, Addie Moore e Louis Waters occupano quasi da soli la scena del racconto, mentre intorno a loro e a quella che è una storia di amicizia e di amore senile si raccoglie, tra polemiche e solidarietà, la comunità di Holt, la stessa, tranquilla cittadina del Midwest nella quale erano ambientati i tre capolavori della Trilogia: Canto della pianura, Crepuscolo e Benedizione.

Haruf parte da una telefonata serale, seguita da una visita e da una proposta: «Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me», dice Addie a Louis. E quando l’uomo le domanda, «In che senso?», la spiegazione è semplice, quasi disarmante: «Nel senso che siamo tutti e due soli… Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare».
È proprio quanto accadrà per buona parte del romanzo. Louis prenderà l’abitudine di raggiungere Addie la sera, prima con una certa prudenza, poi disinteressandosi di sguardi curiosi e giudizi. Si stenderà sul letto accanto a lei, tenendole la mano, e i due vedovi cominceranno a parlare, raccontando l’una all’altro le loro vite, i matrimoni segnati da incomprensioni e da piccole e grandi tragedie, le aspirazioni giovanili naufragate forse troppo presto (Louis sognava di scrivere poesie, Addie di insegnare), la morte dei rispettivi compagni e la dignitosa ma disperante solitudine che ne è seguita. Non è molto più di questo, Le nostre anime di notte: un romanzo scabro, scandito dallo scorrere di giornate tutte uguali.

Come già in Benedizione, ultimo capitolo della Trilogia della Pianura e apice assoluto dell’arte di Haruf, il ritmo del racconto è lento, segnato da variazioni minime e da dialoghi di perfetto mimetismo, dai quali emerge – se possibile ancora rafforzato – lo straordinario orecchio dell’autore per la lingua parlata e per le sue inflessioni.

L’unico «evento» che anima la vita di questa strana coppia è l’arrivo del nipote di Addie, Jamie, che trova nella nonna, in Louis e in un cane zoppo, regalatogli per alleviare la solitudine, un antidoto al dolore e al disorientamento nel quale è stato gettato dalla separazione dei genitori. I capitoli centrati sulle lunghe giornate trascorse con Jamie rappresentano un piccolo miracolo di equilibrio e sobrietà, ammirevoli per l’arte consumata con cui Haruf evita la trappola del sentimentalismo, procedendo per sottrazione e raggiungendo quella commozione a ciglio asciutto che ha sempre rappresentato la sua cifra più autentica.

Traspare a tratti, dalla lettura di quest’ultima opera, un’urgenza che è forse andata a detrimento del lavoro di cesello al quale i tanti lettori della Trilogia hanno fatto l’abitudine. Ma quel che va perso in densità e economia espressiva, viene riconquistato grazie alla forza e alla semplicità della storia, e dei due personaggi che la dominano. Addie, soprattutto, erede delle tante figure femminili nelle quali Haruf ha identificato il collante della sua piccola comunità, e capace di esprimere la natura dei propri sentimenti con l’intensità che traspare, a mero titolo di esempio, da queste sue parole: «Amo questo mondo fisico. Amo questa vita insieme a te. E il vento e la campagna. Il cortile, la ghiaia sul vialetto. L’erba. Le notti fresche. Stare a letto al buio a parlare con te». E Louis, segnato dai sensi di colpa, da una perenne inadeguatezza nei confronti della vita e dei sentimenti che sente crescere dentro di sé, è tuttavia pronto, quasi di slancio, a confessare e portare alla luce le proprie fragilità, senza vergognarsene.

Non c’è da stupirsi che il cinema si sia appropriato quasi immediatamente di questo romanzo che, nella sua estrema economia e nel dominio della dimensione dialogica, fa quasi pensare a una sceneggiatura; ed è auspicabile che il film, del quale è annunciata l’uscita negli Stati Uniti di qui a pochi mesi, consegni finalmente a Haruf quella fama, almeno postuma, che non gli è mai arrivata in vita, e che ne ha fatto, fino ad oggi, un autore di culto in Europa – e in Italia soprattutto.

Probabilmente per effetto dell’urgenza del processo compositivo, Le nostre anime di notte, ha guadagnato in immediatezza e concentrazione quel che perde, rispetto alla Trilogia, in termini di complessità ed elaborazione stilistica. E questo si verifica senza che vengano mai meno quelli che sono i fondamenti della poetica di Haruf: primo fra tutti, il profondo attaccamento a una comunità dalla quale, pur nella consapevolezza di quelli che sono i suoi difetti e i suoi limiti, i protagonisti non pensano mai veramente di allontanarsi. E che sa radunarsi e stringersi attorno a chi soffre, affrontando e accettando l’assoluta naturalità di un ciclo vitale che può interrompersi in qualunque momento, come accade all’anziana Ruth – amica di Addie e pronta a difenderla dalle maldicenze di Holt – in una scena di grande e secca potenza: «A fine luglio Ruth andò in banca in Main Street con un’altra signora anziana che aveva ancora la patente, allo sportello prese il denaro appena ritirato dal conto, lo infilò nella borsetta, chiuse la cerniera pronta ad andarsene, fece mezzo giro su se stessa verso la porta, cadde a terra e morì. Crollò sulle piastrelle della banca come un fagotto fragile e smise di respirare. In seguito dissero che era probabile avesse smesso di respirare prima ancora di toccare il suolo».

La morte è una presenza costante, nelle pagine del romanzo come in quelle della Trilogia: eppure non c’è nulla di elegiaco. Al rimpianto dei due protagonisti per le scelte non compiute, per le mancanze e gli errori del passato, e alla consapevolezza che il tempo stringe e che non è rimasto ancora molto da vivere, Haruf contrappone l’irresistibile vitalità di un sentimento che sboccia e cresce in infinite notti fatte di buio e parole: e come i maestri cui ha sempre dichiarato di ispirarsi, da Cechov a Hemingway e Carver, riesce a raccontare l’amicizia tra anziani e il suo progressivo tramutarsi in amore attraverso il semplice contatto tra due mani. Un miracolo del quale solo i grandi narratori possono essere capaci.