Tre monoliti, come spirito profondo dei tre personaggi, a sinistra, al centro e a destra della scena. Sei sedie e un tavolino. Pochi elementi per definire lo spazio claustrofobico di 12 baci sulla bocca, spettacolo straziante e durissimo nella sua ineluttabile conclusione. Asciugato da ogni vezzo naturalistico, entra nella purezza dell’amore e ne scardina ogni preconcetto, con chiarezza e linearità rare. Scritto da Mario Gelardi – attento osservatore, e coautore con Roberto Saviano dello spettacolo Gomorra, della devastazione camorrista del tessuto sociale campano – e messo in scena dalla compagnia Nest, giovane formazione che da un paio di stagioni si è insediata negli spazi di una ex scuola a San Giovanni a Teduccio, 12 baci sulla bocca approda al Teatro India (fino al 17 febbraio) quale seconda parte di un dittico (la prima è stata Gli onesti della banda, riscrittura dal film di Age e Scarpelli) rivelatore di qualità artistiche e di un fare teatro in stretta connessione con il territorio di appartenenza e la sua collettività.

Questa attenzione agli accadimenti della strada non era sfuggita a Mario Martone che proprio col Nest allestiva Il sindaco del rione Sanità a suggellare l’inaugurazione del nuovo teatro nella periferia est di Napoli. E protagonista ne era lo stesso Francesco Di Leva che in 12 baci si trasforma in un’icona genetiana, santa, dannata, libera.

NEL BUIO, una spranga di ferro sbatte sul monolite a sinistra, mentre si riconoscono le parole del comizio in piazza della Loggia a Brescia, che allertano sui rigurgiti fascisti, qualche istante prima dell’esplosione e della strage. Catapultati da quel sonoro al 28 maggio 1974, ci si ritrova nel ristorante di Antonio (Ivan Castiglione), un fascista spavaldo e violento, che ostenta il suo machismo a protezione di loschi traffici. Qui arriva il lavapiatti Emilio, gay con l’aspirazione di andarsene a Londra, che subito entra in sintonia con Massimo (Andrea Vellotti), fratello di Antonio e in procinto di sposarsi.

Ne nasce una storia dolcissima e potente, come quei grandi salti danzati che il regista Giuseppe Miale Di Mauro disegna per il loro primo incontro amoroso, mentre sdolcinate canzoni pop colorano il paesaggio con un velo di falsità. Una storia segreta che diventa preda della violenza omofoba tracimata fino a noi da quegli anni in cui i movimenti di liberazione iniziavano a lottare per far emergere le differenze di genere. Anzi il quarantennale distanziamento inventato da Gelardi focalizza l’intolleranza galoppante che soffoca le nostre giornate.

NELLE LUCI seppiate di Ettore Nigro, quell’amore cresce e riempie le esistenze di Massimo ed Emilio, che decide di non partire per Londra, vuole restare. Ma nella sua innocenza non vede quanto monta l’intolleranza di Antonio. La voce di Moravia ai funerali di Pasolini segna il tempo, più di un anno è passato dalla strage di Brescia e lo scempio del corpo del poeta si è consumato. La spranga di Antonio sbatte ora sul monolite centrale e poi Angela Luce canta Ipocrisia.