Non per caso, Adrienne Rich ha parlato di una «grande storia non scritta», quando si è trovata a trattare del rapporto tra una madre e una figlia, fondamentale e fondante nella vita di ogni donna, che dunque si impone come una sfida speciale e insieme uno scoglio a ogni artista di sesso femminile che voglia cimentarsi senza retorica sull’argomento.

Trattare questo tema significa, per una scrittrice, non solo scontrarsi con problemi come l’individuazione e l’autodeterminazione, ma anche sottoporsi a un corpo a corpo che attraversa due vite e ne supera i confini. Forse è per questo che poesia e short story, con la loro capacità di elevare il dettaglio a momento epifanico, riescono meglio a esprimere il paradosso della maternità: venire da un corpo speculare, continuare a portarselo dentro, riprodurlo, in quella che la poetessa statunitense Maxine Kumin ha chiamato una sorta di «catena di Sant’Antonio buona per i prossimi / venticinquemila giorni delle loro vite».

Non a caso, dunque, l’ultimo romanzo di Elizabeth Strout, Mi chiamo Lucy Barton (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pp. 162, euro 17,50), in cui una madre e una figlia si ritrovano in un ospedale e, parlando ininterrottamente di futilità riscoprono un affetto remoto, è contratto nei tempi e negli accenti di una short story. Quel che ne dilata l’ampiezza viene affidato a riferimenti alla cronaca, per esempio l’epidemia di Aids negli anni ottanta e l’11 settembre, o a divagazioni sulla città di New York, che dovrebbero conferire spessore romanzesco al nucleo del libro, ma finiscono invece per risultare accessori.

«La madre è la figlia e la figlia è la madre», affermava Jung, e le sue parole tornano alla mente di fronte a queste due donne diversissime: una madre anziana e ruvida, che ha trascorso la sua vita in miseria, circondata dallo squallore di uno sperduto villaggio dell’Illinois, e una figlia colta, madre a sua volta di due bambine, che da quel villaggio e da quell’indigenza della sua infanzia è riuscita a emanciparsi per approdare a New York, dove coltiva ambizioni letterarie e accetta di essere presentata in società come la ragazza che «arriva dal nulla». Tuttavia, ciò che ora rende diverse le due donne è solo apparente: se fin dalla sua prima comparsa il lettore non stenterà a individuare nella ruvidezza della madre i tratti di Olive Kitteridge, la protagonista del libro che rese famosa Elisabeth Strout, verso la fine del romanzo, ovvero molti anni dopo i cinque giorni trascorsi in ospedale, troverà anche in Lucy, la figlia, la stessa determinazione a andare avanti a scapito della sofferenza che la sua emancipazione causerà ai propri familiari, facendo ben poco per evitarla.

Nessun sentimentalismo percorre questa storia, sebbene la stessa autrice la descriva – in un intermezzo metanarrativo – come «una storia d’amore», della quale fornisce lei stessa una succinta sinossi: «È la storia di un uomo che si è tormentato ogni giorno della vita per cose che aveva fatto in guerra. È la storia di una moglie che è rimasta con lui, perché lo facevano quasi tutte le mogli di quella generazione, e che si presenta nella stanza d’ospedale della figlia e sproloquia nevroticamente dei matrimoni falliti di tutti gli altri, e nemmeno lo sa, nemmeno sa che cosa sta facendo. È la storia di una madre che ama sua figlia. In modo imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto».

Un espediente piuttosto scontato fa sì che Lucy venga rappresentata come allieva di un corso di scrittura, e dunque apprendiamo, a un punto inoltrato del romanzo, che quelle che stiamo leggendo sono in effetti pagine a cui Lucy lavorava al tempo delle lezioni di creative writing. Non solo, ma ci viene anche svelato il modo in cui dobbiamo intendere il comportamento di questa madre che, pur restando la figlia ricoverata nove settimane si ferma solo cinque giorni, poi improvvisamente se ne va, proprio quando è prospettata la possibilità di un nuovo intervento. E come dobbiamo interpretare la psicologia di Lucy Barton, le cui sofferenze infantili non sembrano impedirle di amare la madre che l’aveva trascurata, né la inducono a risparmiare alle proprie figlie scelte di vita che saranno, per loro, fonte di distacchi e sofferenza.

Per raccontare una storia come questa, tutta giocata su sentimenti impalpabili, emozioni sopite, dettagli penosi rimossi nel fondo dell’inconscio, Elizabeth Strout oscilla tra passaggi quasi lirici e toni colloquiali, spesso a rischio di banalità, per esempio quando indulge negli stucchevoli vezzeggiativi con cui mamma e marito si rivolgono a Lucy o quando mette in bocca perle di saggezza alla protagonista («La vita continua, fino a quando non continua più», «certe donne hanno la sensazione che gli si strappi il cuore, altre invece trovano molto liberatorio che i figli se ne vadano») tanto da insinuare un dubbio sul successo al quale andrà incontro Lucy Barton, in quanto aspirante scrittrice.

Ma è ancora l’intermezzo metanarrativo a soccorrerci, offrendo una chiave per interpretare non solo questo romanzo, ma tutta l’opera di Strout. «Ciascuno di voi ha soltanto una storia … Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola», afferma l’insegnante, una scrittrice con evidenti problemi didattici (durante le lezioni si incide progressivamente sul suo volto «la devastazione della fatica»).

Non è difficile capire quale sia l’«unica storia» di Elizabeth Strout: un’indagine sugli «amori imperfetti» di piccole persone che cercano di affermare la propria identità in un mondo in cui tenderebbero a passare inosservate; donne come Olive Kitteridge che, all’interno di una anonima comunità del Maine, sceglie di contraddistinguersi per la rigidità e la sgradevolezza dei suoi comportamenti, o come Lucy Barton che, pur conoscendo «anche troppo bene il dolore che noi figli ci stringiamo al petto» e sapendo che «dura per sempre», non può evitare di infliggerlo alle proprie bambine.

Le relazioni familiari dense di gesti e di sguardi piuttosto che di parole, la vita di provincia con il suo imprescindibile corollario di pettegolezzi, la solitudine del quotidiano, il bisogno e il timore di comunicare, sono tutte temi che attraversano, in modi diversi, l’«unica storia» di Elizabeth Strout e tornano, nell’ultimo lavoro, a sostanziare il percorso di individuazione di una donna che rivendica il proprio diritto a essere se stessa fin dal programmatico titolo, in cui si presenta con il proprio cognome da ragazza, al contrario della consuetudine americana secondo cui la donna sposata assume il nome di famiglia del marito.

A questa piena accettazione di sé e della proprie radici, Lucy arriva soltanto a due pagine dalla fine, dopo aver dolorosamente ripercorso nel ricordo i tetri anni della sua infanzia e aver rimesso in discussione, per usare una terminologia psicoanalitica, il proprio romanzo familiare. Solo quando riesce a ravvisare e accettare nel mito universale della maternità l’unicità della propria vicenda, Lucy può gridare forte al mondo il proprio nome. E consegnare al lettore, finalmente, un’immagine positiva del suo passato: i colori del tramonto autunnale sui campi intorno alla piccola casa nell’Illinois.