Questa settimana un giudice federale ha ordinato la scarcerazione di Albert Woodfox dal penitenziario della Louisiana in cui è rinchiuso da oltre 40 anni. Sembrava infine la conclusione di una vicenda emblematica dei soprusi cui vanno incontro i detenuti nel maggior sistema carcerario del mondo. Woodfox fa parte dei cosiddetti «Angola 3», tre detenuti afroamericani che rinchiusi nel famigerato carcere di Angola, negli anni 70 avevano costituito una cellula carceraria delle Pantere nere.

I tre, Robert King, Herman Wallace e Woodfox, avevano organizzato proteste e petizioni contro gli abusi e le quotidiane ingiustizie che erano all’ordine del giorno, particolarmente nei confronti dei prigionieri neri nella ex piantagione schiavista di Angola, e ne avevano fatto le spese. Per aver organizzato una sciopero della fame contro le perquisizioni corporee arbitararie, Woodfox aveva subito un pestaggio con randelli e mazze da baseball da parte di numerose guardie.

Nel 1972 i tre uomini furono accusati dell’omicidio di un secondino durante una rivolta nel carcere. Malgrado l’insufficenza di prove e numerose irregolarità nel processo, i tre vennero condannati e segregati in regime di isolamento.

Segregato per 23 ore al giorno

Dopo 42 anni consecutivi di cella di isolamento Woodfox è ora il detenuto americano che più a lungo è stato sottoposto al regime carcerario punitivo che prevede la segregazione in una mini cella per 23 ore al giorno con accesso limitato a visite, telefonate, libri e contatti con altri detenuti. È anche l’ultimo dei tre a rimanere in carcere: Wallace è deceduto nel 2013, tre giorni dopo essere stato rilasciato per motivi umanitari. King liberato nel 2001 dopo 29 anni di isolamento, ha sempre denunciato la sua punizione «politica» e ha collaborato ad un documentario sul caso.

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Albert Woodfox nel penitenziario di Angola (Louisiana)

Woodfox, che ha 68 anni e soffre di diabete, si è sempre dichiarato innocente pur subendo due processi per il presunto omicidio. Dopo il suo ultimo appello, il giudice federale James Brady ha ritenuto che «dato lo stato precario di salute, l’indisponibilità di testimoni affidabili, la punizione già inflitta al sig. Woodfox e il fatto che sia già stato processato due volte per un delitto di 40 anni fa» il detenuto dovesse essere immediatamente messo in libertà e il caso archiviato.

Ma le autorità carcerarie che non gli hanno mai perdonato la militanza politica sono a loro volta nuovamente ricorse in appello ottenendo una ennesima proroga. Un’azione emblematica del giustizialismo punitivo che vige con tutte le discriminanti razziste del caso, all’interno del complesso carcerario industriale degli Stati Uniti.

Il caso Woodfox dimostra inoltre le resistenze tuttora opposte da strutture anacronistiche come quella di Angola ai tentativi di riforma da parte di organi federali.

Le tradizioni razziste del sud

Non è una sorpresa che il fenomeno sia più accentuato al sud, dove più radicate sono le tradizioni razziste e «irridentiste». È notorio da anni ad esempio il caso dello sceriffo Joe Arpayo che in Arizona da due decenni fa sfoggio di eclatanti iniziative come i lavori forzati, la messa ai ferri e la pubblica gogna dei prigionieri. Per ora ogni tentativo delle autorità giudiziarie di rimuoverlo dalla sua carica di Maricopa County sono stati vani.

Il caso di Woodfox ha nuovamente focalizzato l’attenzione in particolare sulla prassi dell’isolamento ritenuta una forma di tortura fisica e psicologica da un numero crescente di attivisti. Dei 2,3 milioni di persone attualmente in carcere in America, oltre 80 mila sono tenute in isolamento, molte in unità speciali progettate per favorire la deprivazione sensoriale, senza finestre, con luci sempre accese e spesso serrature a controllo remote per ovviare anche al contatto occasionale con le guardie. Il risultato è che oltre il 60% soffrirebbero di disturbi mentali.

Il famigerato «Shu»

Alcuni stati hanno costruito supercarceri per lo scopo specifico, come ad esempio il penitenziario-fortezza di Pelican Bay in California il cui famigerato Shu (Security Housing Unit) è stato progettato per segregare oltre mille detenuti. In seguito alle critiche di organizzazioni come Amnesty International, le Nazioni Unite e Human Rights Watch, si sono fatte più marcate le proteste per l’uso diffuso dell’isolamento come strategia penale per il controllo e la punizione.

La scorsa settimana ha fatto scalpore il caso di Kalief Browder, un giovane di Brooklyn di 22 anni che si è suicidato dopo essere stato arrestato per il furto di uno zaino.

Browder, la cui storia era stata raccontata dal New Yorker, ha passato tre anni in attesa di giudizio nel carcere di Rykers Island, due dei quali in isolamento, prima che un giudice archiviasse il suo caso. Prima di togliersi la vita aveva dichiarato di esser stato irrimediabilmente segnato da quella esperienza.

Per quanto riguarda Albert Woodfox si dovrà attendere ancora qualche giorno per una nuova sentenza che potrebbe infine ridargli la libertà e chiudere così un capitolo vergognoso di giustizia sudista.