Il decreto con i sostegni a famiglie e imprese colpite dalla crisi per il coronavirus arriverà oggi, una volta assolto l’obbligo del voto del parlamento sulla richiesta di scostamento dal bilancio previsto. La cifra che verrà stanziata è ancora incerta. Dovrebbe trattarsi di 11 mld, pari al 2,8% di deficit, sei decimali in più rispetto al 2,2% previsto. Ma non è escluso che si arrivi sino a 13 mld, 2,9%, a ridosso del confine del 3% fissato dai parametri. Le misure in cantiere sono già state annunciate ma non nel dettaglio: moratoria di 18 mesi sui mutui delle famiglie per la prima casa e su quelli delle imprese. Sospensione di tasse e contributi per i lavoratori autonomi. Introduzione della Cig in deroga per le aziende da 1 a 5 dipendenti e ricorso al fondo di integrazione salariale per quelle da 5 a 15 dipendenti. Rafforzamento del fondo di garanzia per le Pmi. Bonus per la cura dei bambini rimasti a casa dopo la chiusura delle scuole o in alternativa congedo parentale straordinario. Al netto ovviamente delle spese più urgenti: quelle per rafforzare le strutture sanitarie.

PER LA DESTRA NON BASTA, e in realtà neppure per la maggioranza e per il governo, che sanno bene di doversi nel prossimo futuro spingersi ben oltre. Salvini, Meloni, Tajani e Lupi hanno chiesto a Conte di fare molto di più: uno sforamento almeno sino al 5% del deficit. Quello di ieri è stato il primo vero incontro tra governo e opposizione e non ha sbloccato la contrapposizione permanente. Salvini considera il risultato «poco più di zero», assicura di essere uscito «preoccupato» dalla riunione: «Abbiamo portato la voce di chiede misure drastiche. Ci è stato risposto di no». In realtà, anche se non ha inaugurato un disgelo, il vertice è andato un po’ meno peggio di quanto non appaia. Oggi tutte e tre le forze di destra voteranno, salvo ripensamenti, lo sforamento del bilancio. «Siamo disponibili se ci viene garantito che è solo il primo passo di un percorso. Servono 30 miliardi», dice Meloni. Si tratterebbe di un risultato importante non solo perché senza il voto della destra al senato rischiano di non esserci i 161 voti necessari ma anche perché un voto unitario è fondamentale per l’immagine dell’Italia nel mondo.

LA SECONDA RICHIESTA della destra bocciata da Conte è quella di una nuova stretta emergenziale, quella chiesta da Lombardia e Veneto ma allargata all’intero paese. Chiusura dei negozi non essenziali e delle attività produttive di non vitale importanza. Sospensione dei trasporti pubblici. Non è una proposta che il governo consideri irricevibile. Al contrario, l’ipotesi è sul tavolo di Conte e del ministro della sanità Speranza già da un pezzo. Il premier infatti non l’ha respinta in blocco. Al termine del vertice palazzo Chigi ha anzi assicurato di essere «risoluto ad aggiornare costantemente le misure necessarie». Il no di ieri si spiega in parte con l’inopportunità di procedere a una nuova stretta meno di 24 ore dopo quella già clamorosa di lunedì sera. Ma soprattutto è motivata da dubbi sulle spese che comporterebbe. Attualmente i costi dell’«invenduto» ricadono sulle spalle degli esercenti. Con la stretta chiesta dalla destra, ma anche dai sindacati, andrebbe invece a carico dello Stato. Rinviare di due settimane permetterebbe di verificare i risultati delle misure adottate negli ultimi giorni, e forse di evitare il passo più estremo. Se poi il virus dilagasse in Europa, consentirebbe forse anche di ricorrere a una copertura economica della Ue. Proprio ieri sera, del resto, la presidente della Commissione von der Leyen, al termine di un vertice straordinario dei paesi membri in videoconferenza, ha annunciato la creazione di un fondo di 25 miliardi destinato a sostenere in tutta l’Unione colpita dal virus occupazione, sistema sanitario e Pmi. L’esitazione del governo è dunque comprensibile ma comporta un rischio evidente: quello di decidersi, come già è capitato, troppo tardi, dovendo comunque pagare i costi di una scelta radicale ma senza ottenere i benefici.

La destra ha poi insistito per introdurre un supercommissario insistendo sulle smagliature della catena di comando in queste settimane. Conte non ne vuole sentir parlare, almeno non di un modello simile al Bertolaso dell’era berlusconiana. Un coordinatore magari sì, ma non di primo piano e senza troppi poteri. Insomma una figura che non possa scippargli la guida del contrasto al virus, che era poi l’obiettivo della destra. Naturalmente Salvini ha insistito per il pugno di ferro nelle carceri e ha puntato i piedi sulla firma del nuovo Mes, che la Ue ha deciso di fissare per il 16 marzo. Senza il virus per il governo sarebbe stato un grosso problema. Così la resa italiana passerà sotto silenzio.