Quando venne premiato nel 2009, Barack Obama aveva da poco pronunciato lo storico discorso – pieno di buoni e costruttivi propositi – all’università del Cairo. Il suo fu quindi un Nobel preventivo, basato sulla fiducia. Sappiamo com’è andata a finire, quando sulle relazioni con il mondo arabo e in particolare con l’Egitto la Casa bianca si è giocata una bella fetta della propria credibilità.

Ebbene, anche il premio Nobel per la Pace assegnato ieri all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac), che su incarico dell’Onu dovrebbe monitorare gli arsenali chimici nel mondo e contrastarne la proliferazione, sembra basarsi più su nobili auspici che su risultati concreti e acclarati. La missione più importante dell’organo con sede all’Aja, uno staff composto da 500 persone e un budget annuo di circa 100 milioni di dollari, è appena iniziata. La risoluzione 2117 del Consiglio di sicurezza punta infatti all’eliminazione dell’arsenale chimico siriano entro la metà del 2014, ma per poter operare in sicurezza l’Opac ha chiesto una tregua. È in effetti la prima volta che una missione di questo tipo si svolge in un paese in preda a una guerra civile. Dove, va detto, la stragrande maggioranza delle vittime è stata causata da armi convenzionali, utilizzate da entrambi i lati, con zero scrupoli per i civili. Ma tant’è. Per ora gli ispettori viaggiano con il vento in poppa – il sospiro di sollievo per il conflitto internazionale evitato in extremis, oltre all’ottimismo di Russia e Stati uniti sulle possibilità di successo. Ma il bilancio dell’attività svolta fin qui per un disarmo chimico globale resta ampiamente deficitario.

Fondata con funzioni attuative nel 1997, quattro anni dopo la firma della Convenzione contro l’uso delle armi chimiche, l’Opac (Opcw è il suo acronimo inglese) aveva invano fissato all’aprile del 2007 la prima scadenza per la distruzione e la messa al bando degli armamenti chimici. Si pensò dunque di posticipare il termine di ben 5 anni, all’aprile 2012. Ma solo tre paesi, Albania, India e Corea del sud, hanno effettivamente distrutto le loro dotazioni entro quella data. Russia e Stati Uniti, a cui si deve il via libera congiunto alla missione Opac in Siria, restano oggi in possesso degli arsenali più grandi e pericolosi del mondo. Mosca ha già distrutto il 57% degli ordigni dichiarati e si impegna a completare il processo tra il 2015 e il 2020. Washington invece avrebbe mandato al macero il 90% del suo arsenale. Bene, se non fosse che gli agenti tossici ancora integri ammontano a 3mila tonnellate – una quantità tre volte superiore a quella che sarebbe nella disponibilità di Damasco. Ma il limite più evidente con cui l’Opac si è trovato a fare i conti riguarda i paesi che non hanno mai firmato la Convenzione, e nei cui arsenali nessuno potrà mai ficcare il naso: Myanmar, Corea del Nord, Egitto, Angola e soprattutto Israele.

[do action=”quote” autore=”Il presidente del comitato norvegese dei Nobel, Thorbjorn Jagland”]«Il premio all’Opac è anche un messaggio ai Paesi che non hanno ratificato il Trattato»[/do]

L’Iran ieri ha avuto buon gioco nel richiamare l’attenzione su questo punto: dopo la ratifica da parte della Siria, dicono a Tehran, sarebbe ora che anche Tel Aviv si adegui. Lo stesso presidente del comitato norvegese dei Nobel, Thorbjorn Jagland, giura che il premio assegnato all’Opac – alla cui guida c’è Ahmet Uzumcu, già console generale della Turchia a Aleppo e ambasciatore in Israele – è da intendersi anche come «un messaggio ai Paesi che non hanno ratificato il Trattato». Inevitabilmente, sui media internazionali avrà maggiore eco la delusione di chi sperava che il Nobel fosse assegnato a Malala Yousafzai, la 16enne pakistana vittima dei Talebani, divenuta icona globale della resistenza femminile contro tutte le oppressioni e gli oscurantismi. Anziché scoraggiarsi, lei ha “confidato” alla Cnn che le piacerebbe diventare premier del Pakistan. Gli eredi di Benazir Bhutto hanno colto la palla al balzo e con un tweet fanno sapere che sì, si può fare. Prima però devono vincere le elezioni, operazione che si annuncia difficile quasi quanto vincere un Nobel.