Nello stato messicano di Veracruz, uno scontro armato tra polizia e narcotrafficanti del cartello dei Los Zeta ha lasciato un saldo di sei persone morte. Tra queste, un reporter, la cui uccisione porta a 15 i giornalisti che hanno perso la vita dal 2010. A Veracruz aveva lavorato per 8 anni anche il giornalista Ruben Espinosa, torturato e ucciso insieme a quattro donne, violentate prima di essere ammazzate con un colpo alla nuca in un appartamento della capitale. Il fotoreporter era fuggito dalla regione dopo aver ricevuto numerose minacce ed essere stato aggredito dalla polizia. Alle organizzazioni umanitarie e ai movimenti che si battono per la libertà di stampa, sempre calpestata, aveva denunciato le pressioni subite dal governatore dello stato, Javier Duarte. E sul governatore aveva svolto una video-inchiesta anche una delle attiviste ammazzate con Espinosa, Nadia Vera.

Il governatore è stato interrogato nell’ambito delle indagini sugli omicidi. In un discorso pubblico infarcito di retorica, ha negato ogni coinvolgimento negli assassinii, dicendosi vittima di un complotto. Ma le organizzazioni della società civile che si battono contro l’impunità e i colleghi del reporter continuano a manifestare e ad esprimere la loro totale sfiducia nella magistratura, che cerca di avallare la pista della rapina o del festino finito male.

Ignacio Cordoba, portavoce del Comitato 5 giugno – così chiamato per ricordare l’aggressione contro gli studenti universitari di Xalapa compiuta in quella data – ha denunciato le pressioni politiche esistenti affinché il caso scompaia in fretta dai riflettori. Intanto, nella zona si era creato un nuovo allarme per la scomparsa di due docenti universitari, poi liberati.
Qualche giorno fa, La Coordinadora Regional de Seguridad y Justicia-Policia Ciudadana y Popular ha denunciato la scomparsa di 20 contadini nella zona di San Antonio Coyahuacan, e ha chiamato in causa il governo municipale di Olinala, nel Guerrero. Uno stato estremamente pericoloso per l’opposizione, dove sono scomparsi i 43 studenti normalistas, il 26 settembre dell’anno scorso. Nella stessa zona è stato ammazzato anche un autorevole poliziotto comunitario, Miguel Angel Jimenez, che aiutava le famiglie nella ricerca degli scomparsi e anche le famiglie dei 43.
Intanto, un gruppo di organizzazioni popolari, comitati dei famigliari e Ong, stanno discutendo un testo alternativo per una legge seria sulle scomparse: circa 25.000, finora definite «persone non localizzate». Un testo che parte dalla consapevolezza delle cause della persistente impunità e suggerisce un tassello di quel cambiamento strutturale chiesto in questi mesi dalle organizzazioni popolari: che non si rassegnano a vedere un paese trasformato in gigantesco cimitero, come indica l’alto numero di fosse comuni clandestine portato in luce durante la ricerca dei 43 scomparsi.

Intanto, i famigliari degli studenti desaparecidos hanno annunciato uno sciopero della fame, affinché con cali il silenzio sulla vicenda dei loro figli e sulle responsabilità di chi vorrebbe chiudere con un «risarcimento» pecuniario un crimine di stato.

In questi giorni, sta concludendo la sua visita la presidente cilena Michelle Bachelet, che ha incontrato il suo omologo Enrique Peña Nieto. Il neoliberista presidente Nieto, il cui vasto piano di privatizzazioni sta consegnando il paese alla miseria e all’asservimento internazionale, ha ammesso che l’aumento del livello di povertà è dovuto a qualche «fallimento» nella sua gestione politica. Poi, senza alcuna vergogna, si è profuso in un elogio nei confronti dei giovani la cui rivolta – ha detto – è in grado di cambiare la società…