Quanta demagogia nell’affrontare il tema delle catastrofi naturali come se, ogni volta, non fosse colpa di nessuno; l’uomo, invece, con le sue azioni distrugge il territorio, lo abbandona, lo sfrutta fino a quando la natura si ribella e, con fare vendicativo, si riprende lo spazio che gli è stato sottratto. Così il territorio italiano si scopre fragile e debole, come le politiche adottate per limitare e prevenire i danni di alluvioni e terremoti. 

Dall’Irpinia alle Marche, dall’Abruzzo all’Emilia, il problema della catastrofe è associato alla questione dell’abitare. Si sradicano le comunità dai loro luoghi di appartenenza costruendo campi di tende, come fossero un qualsiasi accampamento militare, senza un progetto, né politico né urbano. Così si genera spaesamento e perdita delle identità collettive. Qual è, allora, il ruolo degli architetti nella catastrofe? Che contributo può dare l’architettura nel risolvere i problemi del post-catastrofe? E con quale modalità? Cosa possono fare cittadini e amministratori? Queste sono alcune questioni che hanno determinato nella Fondazione Ordine Architetti di Torino e nell’associazione culturale plug_in, la volontà e la necessità di organizzare il workshop Architetture per la catastrofe, con il coordinamento scientifico ad opera dello scrivente, e progettuale di altro_studio (Anna Rita Emili, Barbara Pellegrino).

Il tema nasce dalle riflessioni emerse dal numero tematico Disaster della rivista di architettura archphoto2.0. L’esito del workshop, ovvero la progettazione e la costruzione del prototipo dell’alloggio provvisorio in scala 1:1, pensato per tre persone e della dimensione di metri 8×8 (M2), disegnato da altro_studio (e realizzato dall’imprenditore torinese Gandelli che ha messo a disposizione gratuitamente i materiali e gli operai per un progetto dalla forte valenza sociale e politica), verrà presentato al Festival Architettura in Città di Torino, nell’ambito della conferenza Quale architettura per la catastrofe?

Il laboratorio, a cui hanno partecipato studenti e professionisti, ha consentito di elaborare un sistema di alloggi modulari base di metri 8×4 (M1), con il patio-serra quale fulcro attorno a cui si distribuiscono le funzioni. L’alloggio, concepito con la struttura portante in legno, assolve alle funzioni di facilità di montaggio (il 50% è pensato per essere realizzato in autocostruzione da squadre di operai non specializzati che si formano nei campi di accoglienza degli sfollati), sostenibilità (attraverso l’inserimento del patio-serra) e adattabilità alle esigenze dei fruitori. Le unità abitative hanno diverse dimensioni in relazione ai nuclei famigliari, ripercorrendo e attualizzando le sperimentazioni sulle unità abitative provvisorie avviate da Le Corbusier e Jean Prouvé (come nel caso di École volante del 1940), o da Buckminster Fuller (la Dimaxion House del 1929), attraverso temi progettuali come il riuso dei materiali, lo scorrimento delle pareti interne e l’uso di elementi modulari, che determinano un modo nuovo di vivere lo spazio.

Questo progetto non è stato pensato in astratto – come accaduto per molte ricerche di architetti e studenti – ma contestualizzato, su indicazione della Protezione civile comunale di Torino, nell’area del parco Colonnetti, quale possibile luogo di sfollamento della popolazione in caso di catastrofe ambientale. Sono state studiate le configurazioni urbanistiche per l’insediamento di 1000, 5000 e 8000 abitanti con standard urbanistici, in regime di emergenza, pari a 20mq/abitante (contro i 25mq/abitante in situazioni normali). È stato verificato che la configurazione ottimale per mantenere una elevata qualità abitativa, evitando una dimensione intensiva, sia quella da 5000 abitanti, mantenendo servizi come il verde pubblico, i parcheggi, e le strade.

La sperimentazione adottata, infatti, non si è limitata al singolo alloggio bensì a far si che si generi, dal singolo alloggio una unità abitativa orizzontale rintracciando alcune tipologie delle case a corte torinesi. Una sorta di quartiere orizzontale come il Tuscolano Ina Casa di Adalberto Libera a Roma, in cui l’elemento patio diventa il valore aggiunto che consente di realizzare una piccola casa che, nel nostro caso, può superare il tempo della provvisorietà. Diversamente da quanto è accaduto all’Aquila o in Emilia, dove la disposizione dei fabbricati provvisori è stata casuale e priva di un disegno urbano, in questo progetto si è disegnato un contesto urbano che consente di mischiare spazi privati, le case, con spazi pubblici, le piazze, ricreando un pezzo di città. Per affrontare seriamente le catastrofi naturali occorre fare un piano, ma un piano lo deve fare sia il cittadino e ancora di più il politico. Così sono state prese come esemplari alcune parole chiave dalle procedure del prima, durante e dopo la catastrofe definite dalla Fema (la protezione civile americana):fai un piano, tieniti informato, prepara un kit di sopravvivenza, organizza un piano per la tua famiglia, preparati alla prossima catastrofe. In questo modo si forniscono indicazioni operative facilmente realizzabili se supportate da una volontà politica, spesso assente. Il fatto sconcertante è l’atteggiamento presuntuoso della Protezione civile italiana che non prende esempio da chi ha fatto dell’organizzazione e della prevenzione la sua forza, come nel caso della Fema.

Confrontando il sito internet della Protezione civile italiana con quello della consorella americana emergono differenze sostanziali nel definire il prima, durante e dopo la catastrofe, con indicazioni banali come «chiudi il gas», «avere a disposizione una torcia»; «raggiunta la zona sicura, presta la massima attenzione alle indicazioni fornite dalle autorità di protezione civile, attraverso radio, tv…». Come se gli abitanti in preda al panico, durante una alluvione o un terremoto, ritornino in casa per sentire dalla tv le indicazioni della Protezione civile. Il confronto, insomma, ci vede soccombere. D’altronde l’assenza di una politica di gestione dell’emergenza senza prevenzione, senza educazione civica sulla catastrofe e senza un impegno diretto degli architetti nel progettare alloggi per l’emergenza e non per una convenienza meramente economica, ha determinato progetti come le C.A.S.E. aquilane. Purtroppo le inadeguatezze di Protezione civile, architetti e cittadini vanno ascritte all’assenza di una cultura del disastro.
La mancanza di quella tensione di temporaneità e nomadismo, propria del popolo americano non ci appartiene, ancorati come siamo al feticismo nei confronti delle case di proprietà. In questo senso la catastrofe prima di tutto è una questione culturale. Una catastrofe va conosciuta e si devono sistematizzare le problematiche che essa causa, per fare esperienza e ridurre al minimo le perdite di vite umane.
In questo senso si è studiato il modo per comunicare ai cittadini e agli amministratori una procedura di azione, attraverso due guide distinte, la prima per il cittadino, la seconda, come un quaderno di istruzioni per l’amministratore pubblico e il tecnico.
Insieme, il workshop, le guide e il prototipo dell’alloggio cercano di fornire risposte progettuali adeguate, in modo innovativo e sperimentale, affinché si possa affermare che solo ed esclusivamente con il progetto di architettura si riescono a migliorare le condizioni di vita dei cittadini, attraverso un’etica del fare che deve coinvolgere tutti gli attori del processo della ricostruzione.