«Non c’è alcun motivo per cui io debba essere costretto ad accettare e migliorare il più possibile questo mondo imperfetto e noioso che mi è stato offerto alla nascita. Soffriamo sempre, ma in modi diversi. Non fare nulla è straziante. Giocare un ruolo significa prendere il controllo del proprio secolo, tanto da esserne completamente permeato». Così scriveva il fotografo dei movimenti francesi, Gilles Caron, in una lettera alla madre, il 6 maggio 1960. Tano D’amico ci consegna la sua lettera in Misericordia e tradimento (Mimesis, pp. 112, euro 12), nonché una risposta al situarsi, vivere e agire in un mondo imperfetto. Le parole di D’Amico riecheggiano da un luogo rimosso, quello che in alcune digressioni lui stesso descrive con «la vera bellezza è fatta di misericordia». Dalle immagini del libro scaturisce un fotografo che «irrompe dagli strappi della storia quando c’è conflitto», scrive D’Amico al fianco dell’immagine di una madre con la figlia. Due esseri ritratti, senza enfasi, appena dopo il terremoto del 1980: una «cartolina da Napoli», una cartolina che non concede nulla al cliché dell’occhio colonialista, ed esprime invece tutta la dignità di una Pietà di Giovanni Bellini.

PUÒ CAPITARE DI CONSULTARE qualche Storia culturale della fotografia italiana e non trovare il nome di Tano D’Amico o che i fotografi delle generazioni successive disconoscano il suo lavoro. Tutto questo è avvenuto in Italia e in Europa fino a quando Martin Parr, fotografo internazionale e noto collezionista di libri fotografici, ha deciso di inserire È il 77 di Tano D’amico tra i suoi libri preferiti. Dal 2014 molte sue pubblicazioni, realizzate con la collaborazione di Piergiorgio Maoloni, all’epoca grafico di questo quotidiano, sono diventate non solo rare, ma preziose.
Misericordia e tradimento ripercorre, senza intenzione cronologica, l’itinerario di un’epoca, dagli anni Settanta fino all’immagine dal titolo Prepara la spesa per chi non la può fare (2021): una giovane donna con la mascherina anti-covid, assembla frutta e verdura da consegnare a chi ne ha bisogno; senza difficoltà, la stessa donna potremmo collocarla anche nella pagina seguente, a Genova, in via Tolemaide, nel 2001. D’Amico tiene insieme il suo discorso, non fornisce dettagli, ma digressioni tra le sue fotografie. Sotto le fotografie, didascalie scritte a mano ancorano le immagini alla coesistenza di immanenza e trascendenza. Uno degli esempi migliori emerge da un ritratto del 1973, nelle case occupate della Magliana: il ritratto di un bambino (o bambina) che indica contemporaneamente occhio e pagina su cui scrive. Una scrittura che tracima dalla povertà, dai compiti e diventa segno di un possibile e nuovo alfabeto, lo stesso nuovo alfabeto dissolto a Genova dieci anni fa. Ora, gli spettatori/lettori del libro di D’Amico, archeologi improvvisati, si ritroveranno a decifrare i segni di un’epoca definita estinta laddove invece è stata semplicemente vita, la nostra.
D’Amico pare voler descrivere il bene che non può esistere se non nell’atto consapevole dell’intenzionalità: voglio essere buono! Si intravede, non solo nelle immagini ma anche negli interstizi, negli spazi bianchi, in quel non-so-che che è molto più di un aspetto dell’amore. La misericordia disciplinata: quell’entità dell’essere che è quello che è. Per esempio, fare grazia e misericordia nel terzo millennio, dopo un «omicidio bianco» in piazza del Parlamento. Ancora una volta un uomo è morto, ucciso sul lavoro: «omicidio», insiste Tano D’amico, non incidente.

QUANDO L’UOMO COMUNE, il fotografo – desideroso di occupare l’agorà – si domanda se sia mai esistita la lingua dei vinti, lo fa allo stesso modo in cui Foucault aggiungeva: possiamo descrivere la Storia come una successione di vittorie e di sconfitte? Tano D’amico, dopo la parola misericordia, aggiunge la parola tradimento, concetto altrettanto difficile da arginare in un solo significato. Il tradimento – che si presume abbia accezione negativa in quel consegnarsi al nemico, avvenuto in molti casi, di epoca in epoca, persino inconsapevolmente – non dimentica la relazione complessa che si instaura nel dare voce ai vinti; vinti che, se non hanno una lingua, non significa siano muti, bensì traditi dalle parole e dalle immagini dei vincitori. In un frammento, D’Amico ricorda che una volta è stato sul luogo del Discorso della montagna e lì ha scoperto che in quel luogo soffia, da sempre, un vento «che rende difficile parlarsi e sentirsi». Nel luogo del «discorso», dunque, ci si ritrova alla presenza di un «film muto»; i beati, allora, potrebbero essere semplicemente gli intenzionati a imitare un gesto, come era accaduto nella leggenda del cristianesimo delle origini: replicare l’immagine di un homo sapiens qualunque, l’immagine di un uomo che desideri essere misericordioso.