Impresa di un artista che cerca di ripensare il suo fare poetico attraverso la propria ricerca sui simboli, quella del surrealista spagnolo Juan Eduardo Cirlot è una messa in ordine per via alfabetica del suo mondo, che qui emerge in modo allusivo, ben avvolto e quasi nascosto da una sterminata erudizione: riedito ora da Adelphi (la prima pubblicazione è del 1958 in spagnolo, in inglese uscì nel 1962 e una seconda edizione ampliata apparve nel 1969) il Dizionario dei simboli (traduzione di Maria Nicola, pp. 551, € 34,00) dice e non dice, allude a una elencazione di lemmi, e in questa forma presenta i materiali ma anche svia il lettore, che prova a orientarsi nella selva sterminata, e spesso confusiva, delle simbologie delle culture antiche e degli studi antropologici e psicologici sulla dimensione simbolica. Un saggio della figlia di Cirlot, Victoria chiude il testo e ne svela il retroscena attraverso citazioni illuminanti del padre che dichiarano apertamente il nesso, personale e letterario, con questa sua opera in forma di vocabolario.

Da Jung a Freud a Eliade
«Il nostro interesse per i simboli – scrive J. E. Cirlot – ha un’origine molteplice: in primo luogo l’incontro con l’immagine poetica, l’intuizione che in una metafora vi sia qualcosa di più di una sostituzione ornamentale della realtà; in secondo luogo il contatto con l’arte contemporanea, feconda creatrice di immagini in cui il mistero è componente quasi costante». Il compito che Cirlot insegue «il più importante della mia vita», è fornire una simbologia per la sua «interiorità». Alla voce «cicatrici» si spinge a evocare un suo sogno nel quale amava una fanciulla sconosciuta, che junghianamente definisce «anima», il cui volto «bellissimo era segnato da cicatrici».
Conosciamo, da una lettera a André Breton, l’intero testo del sogno. Il Dizionario cerca di unire l’esperienza simbolica soggettiva, che rimane generalmente sottintesa ma detta il ritmo e colora il lessico della scrittura, con l’aspirazione a un’oggettività nella quale si renda possibile la verifica dei significati, ritrovati in un pirotecnico intreccio di saperi. Cirlot cerca di addivenire a una sorta di «summa» nella quale confrontare le conoscenze di «occultisti, psicologi, antropologi, orientalisti, storici delle religioni» nell’intento di «arrivare alla superconoscenza di una serie di cose (qualità di materie, paesaggi, sogni, esseri che ci riempiono di turbamento, che ci assediano o ci maledicono) per le quali non esiste ancora scienza alcuna», e offrendo di questa mancanza un surrogato, con l’aiuto della psicoanalisi, «o meglio, di una psicologia della forma in evoluzione».

Anche qui l’interlocutore è il teorico del surrealismo, Breton, con il quale Cirlot ebbe buoni rapporti pur criticandone la pretesa di dissociarsi dalla dimensione religiosa, che veniva così lasciata in balia delle «mentalità meno appassionate». Quanto a lui, avrebbe aspirato a mantenere in tensione dinamica lo spirito sovversivo del surrealismo con «ciò che è al di là, sia esso soprannaturale o naturale, trascendente o immanente», e questo lo appassiona più della gloria e del lavoro intellettuale.

Ciò che motiva Cirlot e dà forza al suo racconto istituendo risonanze con la poesia, e con le immagini dei miti, è la potenza che muove «l’anima a credere». Solo la spiegazione simbolica cerca di offrire, e può fornire, «verifiche relazionali», alludendo a concezioni dell’universo, a dimensioni religiose, a repertori mitici, ma non può decidere se la vita spirituale così evocata sia una fantasia di società passate o «una verità eterna che si lascia intravedere attraverso gli interstizi della società profana».

Le guide che Cirlot sceglie per addentrarsi nell’universo pluristratificato dei simboli già dicono del suo orientamento, soprattutto della sua tendenza sincretistica: Jung, ma anche Freud, Eliade ma anche Bachelard, Guénon e Marius Schneider, Goethe e Coomaraswamy, Blavatsky e però Frazer, non senza ricorsi a Platone, Ermete Trismegisto, Francesco Colonna e così via. Seguendo Jung e la sua indicazione di trovare negli alchimisti gli sperimentatori e in Cusano il filosofo, Cirlot sposa, da capo a fondo del suo dizionario, l’unione degli opposti: la dimensione storica non va mai opposta a quella simbolica, l’oggetto e l’azione da un lato all’apertura di senso che il simbolo offre.

Da Bachelard a Guénon a Frazer
Due delle voci emblematiche della scrittura e degli intenti di Cirlot – «paesaggio» e «viaggio» – funzionano anche come metafore della sua opera. Nel sogno e nella predilezione per un certo paesaggio l’interpretazione che arriva «automatica e inconscia ci rivela un’affinità che ci invita a soffermarci in un certo luogo, a ricercarlo, a ritornarvi ripetutamente. Si tratta, allora, non di una creazione mentale, ma di un’analogia che determina l’adozione dello spazio da parte dello spirito, in virtù di qualità che esso possiede di per sé e che coincidono con quelle del soggetto. Il soggettivismo riguarda unicamente la scelta. La comprensione di un paesaggio è pienamente oggettiva».

Idee confermate, per Cirlot, dalla psicologia della forma e dalla teoria dell’isomorfismo, che non distinguono processi formali psichici e fisici, se non esternamente. Tutto il dizionario è, per Cirlot, una rimeditazione della propria vita: «La mia conoscenza della simbologia proviene solo in via secondaria dai libri … I miei sogni, le mie poesie, e addirittura le vicende della mia esistenza posseggono spesso un carattere ‘altro’ che mi spinge a ricercarne un significato: solitamente è simbolico e mi rivela verità “oggettive”, delle quali a volte trovo conferma in opere simbologiche, e che in altri casi rimangono allo stato di problema, provvisoriamente risolto dalla mia intuizione, oppure irrisolto, aperto al chiarore di un’alba senza giorno, come corda che pende nel vuoto».