Nel padiglione francese, che ospita in occasione della 55/ma Esposizione d’Arte di Venezia quello tedesco ai Giardini della Biennale, le fotografie di Santu Mofokeng (Soweto 1956, vive a Johannesburg) raccontano la connessione tra paesaggio, spiritualità e memoria. Queste immagini realizzate prevalentemente in bianco e nero tra il 1996 e il 2012 (parte del corpus Chasing Shadows) sono ritmate dalla presenza di un nucleo dello storico The Black Photo Album / Look at Me, 1890-1950 (esposto per la prima volta alla Biennale di Johannesburg nel 1997). Tasselli di un puzzle geografico e umano che attraversa la storia del Sudafrica e che la curatrice del padiglione Susanne Gaensheimer (direttrice del MMK Museum für Moderne Kunst di Francoforte) ha affiancato al messaggio altrettanto forte di artisti internazionali come Ai Weiwei, Romuald Karmaker e Dayanita Singh.
Santu parla sottovoce, sorride e si scusa, precisando subito che l’inglese è la sua seconda lingua, la prima è il Southern Sotho parlata nell’Orange Free State, una delle undici lingue ufficiali del Sudafrica. È cresciuto a Soweto area urbana di Johannesburg, icona di povertà e oppressione entrata nell’immaginario collettivo in associazione con il razzismo e la politica segregazionista del Sudafrica rimasta in vigore fino alla liberazione di Mandela nel 1990. Ed è qui che da ragazzo, negli anni ’70, prende in mano per la prima volta la macchina fotografica per raccontare il quotidiano e cercare di racimolare qualche soldo, perché fotografare all’epoca era una professione redditizia. Oggi il suo talento è riconosciuto oltre i confini nazionali, Mofokeng con quel suo sguardo fresco, privo di retorica che va dritto al punto, è un modello di riferimento per tutta una generazione di fotografi sudafricani inclusi Guy Tillim e Pieter Hugo.
 I tuoi esordi di fotografo cominciano con la perdita della macchina fotografica che tua sorella, a tua insaputa, prestò a un vicino di casa che non la restituì mai più…
Ho iniziato nel 1973 come street photographer. Allora nella township non c’erano tante macchine fotografiche. Il fascino per la fotografia era più quello di fare soldi, avere un po’ di spiccioli in tasca. E anche quello di essere in grado di parlare a chiunque: sono sempre stato molto timido, soprattutto quando sono costretto a confrontarmi con gli altri. Eravamo poveri e quando frequentavo la scuola secondaria mia madre mi dava due centesimi o, al massimo, cinque. Per questo, ho iniziato a lavorare come fotografo, anche se all’epoca non era considerata come professione. Più tardi, quando qualcuno chiedeva ai miei figli che lavoro facesse il loro padre e loro rispondevano il fotografo, la domanda successiva era sempre: «Ma qual è il suo vero lavoro?». (ride, ndr)
Dopo il diploma hai lavorato in un laboratorio farmaceutico…
A scuola non avevo alcun problema con la matematica e la fisica per cui avevo cercato un lavoro serio. All’inizio, pensavo che questa potesse essere la mia carriera, ma all’idea di fare ogni giorno la stessa cosa per sempre non ce l’ho fatta.
La fotografia ha rappresentato anche uno strumento di ribellione e allo stesso tempo di documentazione…
Molte persone sono venute da me pensando che fossi un attivista, perché il mio lavoro è stato usato contro l’apartheid. Ho fotografato la vita dei neri così com’era in Sudafrica. Ho iniziato come fotogiornalista e, in seguito, le mie immagini hanno conquistato una forma più narrativa.
Tra il 1985 e il 1987 hai collaborato con Afrapix pubblicando le tue foto prevalentemente sul «Weekly Mail». Qual è stata l’importanza di questa agenzia fotografica?
Per me ha significato fare soldi come fotogiornalista! È stato il punto di partenza per far conoscere il mio lavoro che da lì ha cominciato ad essere esposto nelle mostre. Una porta d’accesso verso altre cose.
 All’epoca quali sono stati i rischi della professione?
Sono stato sul punto di essere ucciso due volte. La prima nel 1986 in occasione del più importante sciopero di minatori e l’altra, alla fine degli anni ’80, durante un funerale di stato.
Per dieci anni – dal 1988 al ’98 – hai collaborato con l’African Studies Institute…
Ho continuato il lavoro che facevo per Afrapix. L’istituto universitario aveva bisogno di integrare la documentazione orale con quella visuale. Lavorando per l’African Studies Institute sono cresciuto professionalmente e ho potuto esplorare diversi concetti che ho cercato di realizzare con i miei progetti.
È stato dopo quest’esperienza, in particolare, che il tuo lavoro si è orientato sempre più verso la fotografia artistica?
Esattamente nel 1994, quando ho avuto la possibilità di viaggiare più spesso. All’estero dicevano che ero sudafricano ma, in realtà, fino a quel momento praticamente non conoscevo il Sudafrica. Il mio sguardo ha finalmente potuto osservare il paesaggio del mio paese. Mi sono potuto riappropriare della mia terra.
Hai fotografato soprattutto la gente per strada, nelle case, a scuola e anche in treno. Mi viene in mente il bellissimo lavoro «Train Church» (1986) sulla linea Johannesburg-Soweto in cui ogni mattina e nel tardo pomeriggio c’era una messa gospel. Era difficile fotografare le persone da vicino?
Qualche volta le persone vedevano la macchina fotografica come il mezzo per diventare famose. Facevano qualsiasi cosa per comparire sul giornale o in tv. Mi chiedevano: «dove mi porti?». La mia risposta standard era: «da nessuna parte!» (ride, ndr). Una volta c’è stato chi mi ha chiesto quale fosse la differenza tra stare dentro la fotografia e fuori. Per dire la verità è stata la prima volta che ho riflettuto su questa questione. Ho pensato che anche nelle foto che ho pubblicato sui giornali, ad esempio quelle in cui si parla di povertà, la gente ritratta vuole sempre apparire in maniera tale che sia nel migliore dei modi. Per questo, a loro non piacevano le mie foto. Ma non ho mai fotografato come volevano gli altri, solo come vedo io. Tra i miei scatti, ci sono anche ritratti di famiglia in cui alcuni membri non parlano tra loro. Come si può definire tutto questo arte? Per questo non mi piace la definizione di artista. L’idea che la visione dell’artista sia migliore di quella degli altri e che un creativo capisca di più. Non fa per me. I miei genitori, anzi mia madre, perché mio padre è morto quando avevo tre anni, mi ha insegnato a chiedermi sempre cosa stessi facendo e quale fosse il significato.
Hai una lunga esperienza in camera oscura. Cosa significa per te stampare le tue foto?
Significa avere il controllo dell’immagine dalla visualizzazione al processo della stampa. Tutto è sotto controllo. Questo ha senso nel bianco e nero perché nel colore il materiale non ha resistenza. Quando parlo di controllo intendo dire che dal negativo alla stampa l’immagine è nelle mie mani senza intermediari.
 Quando è avvenuto il passaggio dall’uso esclusivo del bianco e nero al colore?
Le fotografie che espongo nelle mostre sono prevalentemente in bianco e nero, ma quando fotografo uso entrambi. La gente spesso viene da me e mi dice: «Santu puoi fotografarmi a colori?». E io rispondo: «Sono daltonico!» (ride). Non è vero! (ride ancora).
 Tra le immagini esposte ci sono anche alcuni scatti a colori…
Mautse Cave viene da un negativo a colori del 1996. La foto è stata scattata in una cava nel Free State. Quello che odio del colore è che do il mio negativo e mi viene restituita la sua interpretazione.
Fotografi anche in digitale?
Un amico mi ha detto che la bellezza di questa mostra è che inizia con la fotografia analogica e finisce in digitale.
Tra i tanti progetti ce n’è uno che senti che appartenerti più degli altri?
Mi piacciono tutte le foto che ho fatto, in particolare la serie Billboards. In passato queste insegne sono state usate per divulgare concetti di libertà e democrazia, oggi invece le grandi ditte usano lo stesso linguaggio per vendere i loro prodotti.
Nelle tue foto c’è il racconto crudo della realtà, ma non c’è autocommiserazione né retorica, piuttosto c’è una vena ironica. È così?
«È il mio piccolo esempio di humor! Inquadrare una fotografia per me significa inquadrare il mondo. Quando si guarda in questo modo si è consapevoli di altre cose. È un approccio, se vogliamo, antifotografico».

SANTU MOFOKENG è un ragazzo (nero) negli anni in cui l’apartheid è al culmine dell’aggressività e della violenza. Cresce a Soweto – dove è nato nel ‘56 – area urbana di Johannesburg, icona di povertà e oppressione che entra nell’immaginario collettivo in associazione con il razzismo e la politica segregazionista del Sudafrica. Soweto è anche sinonimo di rivolta, quella del ’76, adottata – ancora una volta nella storia – dagli studenti. Tante immagini scorrono davanti agli occhi di Mofokeng, nell’intreccio fresco della vita quotidiana, prima ancora di diventare memoria. È proprio lì che comincia a fotografare. La serie Soweto Townships (1982-89) e The Black Photo Album/Look: 1890-1950 – concepito come un enorme album che riunisce vecchi ritratti e foto di famiglie di colore (per lo più sconosciute), collezionate e poi rifotografate dall’autore che ne restituisce storie reali quanto immaginarie – sono il cuore della retrospettiva Santu Mofokeng. Chasing Shadows (a cura di Corinne Diserens) che, attraverso oltre 200 immagini, ripercorre trent’anni di professione, ma anche di presa di coscienza politica e militanza lavorando, tra gli altri, nel collettivo AfraPix. Una mostra itinerante che dopo l’esordio parigino arriva alla Kunsthall Bern (fino al 27 novembre). Ricorrendo prevalentemente ad un bianco e nero che sa essere poetico e drammatico, il fotografo sudafricano insegue e cattura le «ombre invisibili» di pregiudizio e insofferenza, dolore e insicurezza. Non solo nel suo paese – dove torna ad esplorare rituali religiosi, paesaggi, sentimenti – Mofokeng intercetta la storia entrando nel campo di concentramento di Auschwitz o nei cimiteri di Greylingstad, Brandfort, Middleburg. Ma quando fotografa sul palco di Shareworld (Soweto) Ray Phiri, leader della leggendaria band sudafricana Stimela – di spalle davanti ad un mare di persone – è il portavoce di entusiasmo e ottimismo. Protesta e speranza passano anche attraverso le note musicali, si sa.