Continua la meritoria opera di pubblicazione dei romanzi di Léo Malet da parte dell’editore Fazi. Questa volta tocca a 120, Rue de la Gare (pp. 216, euro 15), romanzo scritto ponendo sullo sfondo la Francia occupata dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Protagonista è sempre l’investigatore privato Nestor Burma, prigioniero inizialmente in uno stalag tedesco ma poi rilasciato come segnale di magnanimità degli occupanti. A contorno, poliziotti che si comportanto come se la guerra non sia mai iniziata e avvocati, notai, giornalisti, criminali di mezza tacca che provano ad arricchirsi, sfruttando le falle nel regime dell’occupazione militare.

NESTOR BURMA vuol tornare a Parigi. Il treno che lo conduce nella metropoli francese fa sosta a Lione, formalmente sotto la sovranità del governo di Vichy, che esercita un controllo sulla mobilità tra la zona occupata dai nazisti e quella «libera». Alla stazione viene ucciso un investigatore alle sue dipendenze. Inizia così un paziente lavoro di investigazione per fare luce sull’omicidio.
Léo Malet deve vedersela con le regole della guerra. Non ama i nazisti, così come non ama il governo di Vichy, ma la guerra gli è indifferente, perché gli appare estranea e conseguenza di una politica di potenza dalla quale si tiene a debita distanza.

EPPURE, anche nella zona grigia che non prende posizione lo scrittore francese riesce a restituire la follia della guerra, i piccoli-grandi opportunismi di chi non solo vuol sopravvivere, ma semmai arricchirsi in questa situazione. Un romanzo con una storia non proprio entusiasmante, tuttavia capace di drappeggiare l’affresco di una Francia piccolo-borghese, da sempre bersaglio dell’anarchico Malet.
In queste pagine, Nestor Burma ha come interlocutori solo alcuni poliziotti. Con loro può parlare fuori dai denti, con loro valgono le regole del rispetto reciproco, ma anche quella diffidenza che si può avere nei confronti di un custode dell’ordine costituito.

AVVOCATI, GIORNALISTI, medici sono invece i professionisti dei quali diffidare sempre, anche quando Burma passa le notti con loro in qualche locale, cercando buon vino, cibo di qualità e un surrogato di caffè di «alto livello». Migliori di loro sono i vecchi criminali che hanno talvolta fatto tremare i benpensanti della Francia, quando rapinavano banche o si introducevano nelle case dei ricchi borghesi per depredarli, usando una violenza che suscitava orrore.
Ma i criminali, manda a dire Malet, un qualche senso dell’onore lo avevano. I piccoli borghesi non conoscono neppure la parola onore, chiosa infatti lo scrittore francese.

MOLTO È STATO SCRITTO su Léo Malet. Sulla sua indubbia capacità di innovare il «giallo», sulla sua sofisticata scrittura che non lesina colti riferimenti alla storia dell’arte, della filosofia e della letteratura. Poco, invece, è stata sottolineata l’influenza che ha avuto sulle nuove generazioni di scrittori e scrittrice di polar e di noir francesi, da Jean Claude Izzo a Dominique Manotti, Fred Vargas e tanti altri, che hanno saputo sottrarre il noir all’intrattenimento, come invece voleva George Simenon, e far diventare questo genere narrativo una corrosiva e politicissima critica dello status quo.