Un susseguirsi di capolavori e film rivelatori ha percorso l’ultima edizione delle Giornate del cinema muto diretta da David Robinson, la cui direzione ha trascurato l’esigenza di rassegne più ampie dei massimi autori del muto ma ha saputo disseminare i programmi di molte scoperte che le facevano desiderare. Perché qui mai un tutto Dwan, McCarey, Ford, Walsh…? E quest’anno si potrebbe aggiungere: a quando un tutto Fescourt o L’Herbier, registi dei due capolavori proposti, Les misérables e L’inhumaine?

Il festival si proietta ora verso il futuro, con il passaggio di testimone al nuovo direttore Jay Weissberg che «allenandosi» quest’anno con alcune presentazioni si è già rivelato di simpatica comunicazione. Tra le sue prime dichiarazioni si nota l’intelligenza che non si tratta di porre barriere tra cinema muto e cinema tout-court, e che un festival italiano (e ce lo dice un angloamericano!) deve occuparsi con particolare attenzione di cinema italiano. Si tratta di una giusta sfida: il muto italiano ha oscillato tra sopravvalutazioni e sottovalutazioni, oggi ne vanno abbandonati i falsi canoni perché le vere grandezze non vi mancano. «Molto lavoro ci attende» come diceva Dreyer.

Una rassegna più ampia e addirittura pluriennale c’è stata, quella della commedia sovietica, e ha confermato l’inesauribile splendore di quella cinematografia. Tra le riscoperte russe, accanto ai relativamente conosciuti Nikolai Petrov, Aleksei Popov, Ivan Pyriev, Viktor Shestakov, sono apparsi ben tre film da porre tra i sommi della storia del cinema. Il tardo muto (1934) di Antonina Kudriavtseva (un’altra donna regista sovietica da riscoprire), Razbudite Lenochku con Yanina Zheimo, è tra i capolavori mondiali dello slapstick, da porre accanto a Keaton e al qui ritrovato The Battle of the Century supervisionato da McCarey e fotografato da George Stevens, il film in cui la coppia Laurel & Hardy è ai primi passi ma appare già come la coppia per eccellenza, oltre i sessi; e più ancora che la battaglia di torte della seconda parte è il mai visto match pugilistico della prima a essere grandioso, con Ollio che per due volte indica a Stanlio il «punto debole» della ciccia, puro private joke senza seguiti di finzione, che solo un genio assoluto come McCarey poteva ideare.

La scatenata Zheimo del film russo non è stata da meno, in questo correre al risveglio per non arrivare in ritardo, che gli interventi pedagogico-censori sull’edizione hanno invano frenato. Del cinema sovietico non cessa di meravigliarci l’incontrollabilità ideologica. Altro capolavoro, Kinokariera zvonaria (1927) di Nikolai Verkhovskii, è forse addirittura il più bel film su un set cinematografico, e sappiamo a quali vette lo paragoniamo. Infine Perepolokh (1928) di Aleksander Lovshin, unica regia superstite di chi diventò propagandista, memorialista, aiutoregista dei maggiori, film ritrovato in un 16mm americano (!) intitolato genialmente Sentenced to Health giacché il contadino protagonista è sottoposto a un trattamento medico in cui s’intravede la metafora assoluta del socialismo; catalogato dagli archivi per errore col titolo Inquietudine che ben rivela il punto interrogativo del film, è stato presentato in anteprima mondiale a Pordenone in una proiezione-unicum perché per errore digitalizzato a una velocità rallentata che rendeva l’incubo del film pressoché insostenibile.

Credo che la proiezione irripetibile di questo Lovshin sia l’emblema di come il muto possa irrompere nel XXI secolo ben oltre le realizzazioni mimetiche viste negli ultimi anni nella rassegna intitolata appunto Muti del XXI secolo in cui tuttavia quest’anno si sono visti i notevoli film d’animazione Prologue di Richard Williams e l’iraniano omaggiante Tim Burton Junk Girl di Mohammad Zare e Shalale Kheiri (con corollari Picture di Cherchi Usai e Amore tra le rovine di Massimo Ali Mohammad, rispettivamente coprodotto e interpretato da Livio Jacob).

I migliori muti visti qui sono stati davvero film del XXI secolo, che parlano agli spettatori d’oggi da contemporanei che possono intenderli meglio degli antenati coevi. Si pensi solo ai due brevi Allan Dwan presenti nella rassegna sulle origini del western (che includeva anche Curse of the Redman di e con Hubert Bosworth, all’epoca rifiutato dai nativi ma che oggi si rivela adeguatamente cupo).

The Poisoned Flume (1911) e soprattutto The Vanishing Race (1912), il cui «pogrom» di indiani è il giudizio storico più spietato sulla storia americana (che il regista compirà nel finale The Most Dangerous Man Alive), confermano in Dwan il vero ponte tra Griffith e Dreyer. Ma si pensi anche ai programmi sulla grande guerra, come quello di Luca Comerio, speriamo solo introduttivo a una rassegna più ampia, che rivela ormai in Comerio il maggior erede europeo di Lumière. Ma è stato inquietante anche il film americano On the Firing Line With the Germans con cui nel 1915 Wilbur Henry Durborough «auspicava» un’alleanza americano-germanica. Opera di propaganda che oggi diventa di storia parallela, dove appaiono sia le uniche immagini della Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà, sia gli atroci atti di guerra germanici sul fronte polacco e russo, veri prologhi al rovesciamento leniniano della storia, più che all’intervento di Wilson nel conflitto europeo. E gli stessi film postbellici italo-tedeschi di Luciano Albertini, vero cineasta più che uno dei tanti attori-forzuti (lo intuì bene il cofondatore delle Giornate Mario Quargnolo), sono atti di fiducia nel corpo degni di Verginità indifesa di Makavejev.

Ma un festival si rivela essenziale quando anche i piccoli film brillano della luce dei grandi anziché apparirne noiose o banali cadute. Era facile prevedere che i due Lubitsch Die Puppe e Romeo und Julia in Schnee si sarebbero confermati dei capolavori. Molto meno ovvio è scoprire film tedeschi degli anni ’20 del tutto sregolati come gli Albertini di Obal e Malasomma. O, nel cinema americano, una rarità come Show Girl di Alfred Santell con Alice White, film medio ma vitale scoperto dalla Cineteca Italiana nella versione con didascalie italiane distribuita dal grande Pittaluga, e che forse è tra i film le cui didascalie furono editate da Mario Camerini.

E, se L’Herbier è seppur insufficientemente ammirato (L’inhumaine vale davvero un grande film), un cineasta francese come Fescourt, che persino Lourcelles e Vecchiali sminuiscono, ci dà nella sua versione di Victor Hugo (superiore a quella di Freda vista l’anno scorso a Bologna) un grande film sui fallimenti rivoluzionari, degna eco non solo della sua storia recente (con un momento persino dovzhenkiano),e con una commovente Nivette Saillard all’esordio che mai diventerà diva protagonista. Fescourt è un grande rabdomante di presenze attoriali, degno della scuola di Feuillade.