Se a un qualunque bambino norvegese venisse chiesto di disegnare il suo paese – così dice lo scrittore e pescatore norvegese Morten Strøksnes (Il libro del mare, Iperborea) – disegnerebbe, senza saperlo, il paesaggio delle Lofoten. Picchi scoscesi che si tuffano diritti in un mare bianco-argento e un pugno di case di legno rosse disposte irregolarmente, «come dadi lanciati a caso».
L’ultima immagine è di Roy Jacobsen, autore ormai classico in Norvegia, che proprio in quelle isole ha ambientato uno dei suoi romanzi più belli, Gli invisibili (edito da Bompiani, è la storia di una famiglia di pescatori negli anni Venti del ’900). Ma poi vi è un altro particolare in quel disegno, da non trascurare: gli alti graticci di legno ai quali sono appesi a essiccare centinaia di merluzzi legati per la coda a coppie di due. Al largo delle Lofoten e delle Vesterålen si riproduce infatti il ceppo di merluzzi più abbondante del mondo, una fonte di ricchezza per il paese quasi equivalente al petrolio.

NONOSTANTE LA LATITUDINE, il clima nell’area è piuttosto mite grazie alla corrente del Golfo e i merluzzi amano stare dove lo strato di caldo del profondo del mare si incontra con quello più freddo verso la superficie. Fu lo zoologo Georg Ossian Sars (1805-1869) a descrivere questo particolare e a illustrare i tratti primari della biologia del merluzzo, anche se oggi il rapido cambiamento delle condizioni climatiche sta mettendo a dura prova le abitudini dell’animale.
Il pesce tende infatti ad allontanarsi dalla costa in cerca di acqua più fredda, finendo così in troppo in profondità, dove è quasi impossibile pescarlo. È un problema, nonché la ragione per cui la Norvegia ha cominciato a investire molto di più sull’allevamento di un altro pesce, il salmone: il sushi di salmone è peraltro un’invenzione norvegese e il salmone che si consuma in Giappone è in gran parte importato dalla Norvegia, come racconta l’ultimo numero della rivista di viaggi ed esplorazioni The Passenger (Iperborea), dedicato proprio al paese scandinavo.

FIN DALL’EPOCA dei vichinghi il pesce ha rappresentato la prima voce nelle esportazioni norvegesi: il primo documento letterario che narra il commercio del pesce essiccato – alimento virtualmente privo di scadenza – è la Saga di Egill Skallagrímsson (Mondadori), che descrive le navi cariche di pelli e di «pesce essiccato» (skreið) di un popolo di navigatori abituato a restare in mare anche per lunghi mesi. Già nell’Alto Medioevo, quindi, i documenti testimoniano di come grazie all’esportazione di pesce essiccato, una città come Bergen avesse raggiunto dimensioni e ricchezza straordinarie.
Pochi secoli più tardi, il Ménagier de Paris. Traité de morale et d’économie domestique composé vers 1393 par un Parisien pour l’éducation de sa femme istruiva su come lo stofix, il merluzzo essiccato, dovesse essere mangiato lesso e condito con della mostarda o intinto nel burro; prima di essere bollito però, doveva essere lasciato in ammollo nell’acqua per molte ore. Si poteva aggiungere all’acqua anche della corteccia di frassino e della liscivia (lut), in modo che, una volta lavato di nuovo, il pesce fosse gelatinoso e più saporito. Si trasformava così in un altro piatto divenuto celebre: il lutefisk, menzionato anche dall’arcivescovo svedese, umanista geografo, Olao Magno nel 1565 nella sua preziosa Historia de Gentibus Septentrionalibus. Il tutto da accompagnarsi con burro salato e, soprattutto, con i lefser, speciali crêpes di patate che ancora oggi rappresentano una pietanza tradizionale norvegese.

CIÒ CHE FA DELLA CARNE del merluzzo artico norvegese – lo skrei, nome latino gadus morhua – una prelibatezza è l’eroico viaggio di oltre mille chilometri in acque gelide e agitate che il pesce compie partendo dal mare di Barents per raggiungere le coste della Norvegia del Nord, dove è nato, per andare a riprodursi. Skrei deriva appunto dall’antica parola norrena che significava «viandante». I merluzzi che vengono pescati tra febbraio e aprile vengono sfilettati e messi a essiccare tra aprile e giugno – nel periodo delle notti bianche – su rastrelliere all’aperto, dove si asciugano al sole e al vento.
Dalle succulente lamelle carnose dello skrei rimase folgorato anche il mercante veneziano Pietro Querini quando nel 1431 in seguito al naufragio della sua nave che da Candia doveva condurlo nelle Fiandre, si ritrovò a Røst, nelle Lofoten, dove insieme all’equipaggio venne soccorso e sfamato con uno strano pesce che veniva «battuto col rovescio della mannara» fino a farlo diventare sottilissimo, e poi essiccato: lo stokkfisk, appunto, «pesce bastone» (F. Giliberto – G. Piovan, Alla larga da Venezia. L’incredibile viaggio di Piero Querini oltre il circolo polare artico nel ’400, Marsilio).
Inutile dire che al ritorno di Querini – carico di un bottino di sessanta stoccafissi –, quello strano pesce, lo stoccafisso, diventò una prelibatezza che sarebbe stato possibile assaporare anche nelle più rinomate tavole del Veneto. «Stoccafisso» che tuttavia non dovrebbe essere confuso con il baccalà – merluzzo conservato invece sotto sale –, benché sia quest’ultimo il nome con il quale nelle terre della dominazione veneziana viene ancora oggi chiamato in realtà lo stoccafisso: il celebre bacalà (con una «c» sola) alla vicentina è infatti preparato con lo stoccafisso, che dal 2015 ha ottenuto il marchio di «Tørrfisk fra Lofoten IGP» (Pesce essiccato delle Lofoten IGP).

QUELLA DEL BACCALÀ è un’altra storia, ma va perlomeno ricordato che anche il bacalhau portoghese proviene dal nord della Norvegia, ove ancora più a nord delle Lofoten vi è un’isola, Husøy, la cui sopravvivenza è legata pressoché esclusivamente all’esportazione del baccalà in Portogallo. La storia dell’isola è curiosa: un pezzo di terra deserto che fu acquistato nel 1932 da due fratelli visionari, Hilbert e Aksel Karlsen, figli di pescatori, i quali avevano capito che l’isola era vicinissima all’imboccatura del fiordo, centro della rotta migratoria dello skrei.
La storia dei Karlsen ricorda la vicenda dell’immaginaria famiglia Barrøy, proprietaria dell’omonima isola nata dalla penna di Roy Jacobsen. Siamo negli stessi anni, i Barrøy sono i Karlsen dello stoccafisso, e grazie loro impariamo, tra l’altro, che cosa si accompagnasse al pesce in quelle isole nei primi anni del ’900: pane con marmellata di rabarbaro o di bacche di rovo artico, il camemoro. Soltanto la domenica burro e caffè. Con il pesce si farcivano torte salate, e del merluzzo si conservavano anche lische e teste, per farne «guano» fertilizzante utile nella coltivazione delle patate. In realtà, anche oggi, delle teste di merluzzo alle Lofoten si conservano le lingue, che si mangiano impanate e fritte nel burro.
Nelle occasioni particolari si poteva gustare anche il gomme (o gumme, gubbost, gombe… ecc., le varianti si differenziano in base alle specificità regionali). Si tratta di una sorta di formaggio dolce spalmabile, ottenuto separando la cagliata dal siero del latte e combinandola con altri ingredienti, come zucchero, uova o panna acida. Nel passato era considerato un cibo pregiato poiché implicava il possesso di latte fresco, quindi di animali. Ancora oggi esiste un motto nel Nord-Norge, che dice «lefse uten gomme er som grøt uten salt», ovvero «il lefse senza gomme è come il porridge senza il sale».

LA PAROLA DERIVA dall’antico gumma (donna, moglie) poiché nell’antichità, la pregiata ed energetica pietanza si preparava per la puerpera. Il merluzzo non era e non è tuttavia l’unico pesce che si può gustare in abbondanza in quelle zone: chiunque viaggi in Norvegia troverà spesso nel menù dei ristoranti lo halibut, un pesce piatto dalle carni bianche e delicate simili a quelle del rombo. La sua caratteristica è che è facile da cucinare: qualche goccia di aceto nell’acqua e due foglie di alloro. Ma in tavola sopra il circolo polare troviamo anche merlano nero, aringa salata, passera di mare, eglefino, brosme, uova di gabbiano… tutto ciò che può offrire un’isola in balìa dell’umore del mare, sovrano assoluto, con le sue sfuriate, allorché in cambio dei suoi doni esige porzioni di terra, poi «ritira la lingua, si lecca le labbra e chiude la bocca. Sulla terra non resta che qualche effimera chiazza di schiuma bianca» (Strøksnes).

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Le tavole della letteratura sono sempre state imbandite. A volte, il cibo stesso, un ingrediente, una ricetta, una tradizione conviviale sono stati i motori della narrazione. Si sono trasformati in personaggi, assumendo su di loro temi simbolici, rappresentando la vita, la morte, il destino, le emozioni. Fino a fine agosto, pubblicheremo una serie di pagine dedicate a romanzi con qualcosa da mangiare. Il logo delle nostre «Cucine letterarie» è «Kitchen range» di Roy Lichtenstein, un’opera del 1962.